"Cosa chiede un malato di Covid? Il Tutto con la T maiuscola". Don Elenio Abis ha 39 anni, dodici da sacerdote. Dal 23 settembre del 2019 è il cappellano dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari. Mai avrebbe pensato a distanza di cinque mesi dal suo arrivo tra i padiglioni di via Is Mirrionis di armarsi di camice anti-contagio, mascherina e guanti, scendere in trincea e combattere in prima linea contro il virus. "Stiamo vivendo una situazione di fragilità. Ci sentiamo come in mare aperto, sballottati tra le onde. Come gli apostoli nel mare in tempesta. In tanti sono spaventati". Questo senso lo vive chi, per lavoro o per necessità, varca il cancello del Santissima, fin dal primo giorno dell'emergenza diventato il simbolo della lotta contro il virus. "Chi è fuori", dice don Elenio, "non ha la stessa consapevolezza di quello che accade. Durante il lockdown c'è stata una maggiore condivisione. Ora chi non vive l'ospedale pensa che il peggio sia alle spalle".

Invece?

"Basta leggere i numeri. In Sardegna, e qui al Santissima, questa seconda fase è completamente diversa dalla prima. Dal 9 settembre ci sono stati più di 200 ricoverati qui da noi e oramai quasi 150 vittime. Basti pensare che nei primi tre mesi dell'emergenza le vittime sono state in tutto 26".

Cosa chiedono malati e personale ospedaliero al cappellano del Santissima?

"Chiedono il Tutto. Una speranza. Il di più. Chiedono Dio, la bellezza di essere custoditi. L'amore più grande. Si vive una conversione: si riprende in mano la propria vita per guardarla con occhi nuovi. Medici, infermieri e personale dell'ospedale sono le sentinelle che vegliano sui pazienti: anche loro hanno bisogno di qualcuno che gli indichi la via giusta. E lo cercano ogni giorno".

A casa ci sono i parenti dei malati: non possono stare vicini ai loro cari. Cosa le dicono?

"Ricevo tra le 80 e 90 telefonate al giorno dai familiari dei pazienti. Mi chiedono notizie, mi domandano il favore di portare abbigliamento o un oggetto. Ma soprattutto mi pregano di stare vicini ai loro cari. E, nei casi più difficili, anche l'estrema unzione".

I malati come vivono questo distacco?

"Quando arrivano in ospedale sono coscienti di dover vivere questa lontananza. Sanno che potrebbero non rivedere mai più i loro cari. Mi lasciano anche dei messaggi da riportare ai loro familiari se non dovessero farcela. Io cerco di trasmettere la speranza. Perché quando si perde il senso, la speranza diventa disperazione. Bisogna capire che questa non è la fine, ma il fine verso qualcosa di più grande". Le sue giornate sono oramai tutte uguali? "La mattina mi vesto e vado dai malati. Sono qui per loro, così come per il personale ospedaliero".

Come si comunica a un parente la morte di un proprio caro?

"Si cerca di farlo in diverse fasi. Purtroppo in questa seconda ondata capita di doverlo fare a familiari che sono a loro volta in ospedale. Ho dovuto dire a una signora, ricoverata, che il marito malato non ce l'aveva fatta. C'è una preparazione e viene attivato anche un medico perché le reazioni, su un malato, devono essere controllate".

Esperienza fortissime.

"Di tutti i tipi. Per questo mi sento un testimone privilegiato, vivendo così intensamente il tutto".

Qualcuno rifiuta il suo aiuto o la sua parola? "Non mi è ancora capitato. E ho avuto a che fare con giovani, anziani, ebrei, musulmani. E anche mangia preti. Tutti stando qui ripensano alla loro vita, vivono il loro intimo. Molti capiscono che non avevano più una vita interiore, spirituale. La riscoprono attraverso un percorso difficile. Una donna, a cui avevo detto che il marito era morto, mi ha incontrato dopo un po' di tempo: mi ha riconosciuto dagli occhi, visto che il resto del viso era coperto dalla mascherina. E mi ha ringraziato per averla aiutata nell'elaborazione del lutto".

Chi aiuta don Elenio?

"Ci sono dei momenti in cui mi fermo. Da solo, vado nella cappella dal mio primario, dal mio cardiologo. Dio. Cristo. Il medico per eccellenza. Lui poi non mi fa mancare la dolce compagnia del personale. Siamo diventati una grande famiglia. Quando medici, infermieri e gli altri lavoratori dell'ospedale mi incontrano, mi dicono: don elenio, mi benedica. Poi affrontano i continui ricoveri, quasi sempre contemporanei".

Qualcuno dei pazienti ha paura di non farcela?

"Certo. Mi sussurrano di non farcela più, che il peso sta prendendo il sopravvento togliendo il senso di quello che stanno facendo".

Ci sono anche bambini?

"Sono meravigliosi. Sono sereni e curiosi. I pazienti modello. Così come i ragazzi down. Anche loro affrontano questa esperienza di vita con una serenità esemplare. Più difficile il percorso quando si tratta di 15enni". Cosa sta imparando a fare don Elenio? "Di tutto. Oramai aggiusto i telefonini per gli anziani. Oltre alla cura dello spirito, quando posso do sempre una mano d'aiuto ai pazienti. Memorizzo numeri nei cellulari, metto in carica i telefoni, porto vestiti. E, così come fa anche il personale, faccio fare videochiamate a chi non riesce in modo che possa parlare con i familiari e vederli".
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