Scusi, signore: posso dire che sono con lei? “Certo, mettiti davanti a me”. Nessun tornello, giusto il controllo sommario del biglietto, ma solo sei adulto. A quattordici, quindici anni varcare le porte del Sant’Elia è un affare semplice. Bastano la passione e un po’ di fila agli ingressi: poi è festa con gli amici sugli spalti. Si mangia, si beve, si canta e si aspetta la partita. Ma trovare posto è un’impresa, persino due ore prima della gara perché i numeri degli spettatori a quei tempi sono giganteschi. 

STADIO PIENO 

Spesso bisogna accontentarsi di una postazione di fortuna sulle scale, con l’assenza totale di vie di fuga di sicurezza che arriveranno solo molti anni dopo. Si sta in tribuna stretti stretti, uno attaccato all’altro, tra il fumo di migliaia di sigarette e l’odore tagliente di cipolla fritta. C’è un’atmosfera di amicizia, di battute e soprattutto di pronostici sull’andamento della partita: “Oggi Gigi ci regala uno dei suoi classici gol di testa”. Gigi non è più il mito Riva, ma il ragazzone di Selargius che di cognome fa Piras: robusto e assai lontano dall’idea dell’atleta moderno, in area è una sentenza, soprattutto in quella stagione, quando il Cagliari sta lottando con i denti per riconquistare la Serie A perduta qualche anno prima. 

RAGAZZI E BAMBINI 

Pochissime le donne sugli spalti, c’è l’idea, per fortuna sbiadita, del calcio come affare da maschi: in compenso sono migliaia i ragazzi e ragazzini, persino bambini che vanno allo stadio da soli in un clima di fiducia generale. L’appuntamento al Sant’Elia è un rito che accompagna quasi tutta la domenica, d’altronde si gioca solo e sempre di domenica pomeriggio: panino imbottito, acqua, succo di frutta (birra o vino per i più grandi), noccioline e l’attesa infinita della partita. A volte al freddo o con la pioggia, molto più spesso sotto un sole abbagliante che garantisce l’abbronzatura per tre quarti dell’anno. 

LA PARTITA DAL VIVO 

Quel rettangolo verde all’uscita dalle scale interne dello stadio regala sempre un colpo al cuore: nelle case le tv a colori sono poche e chi ce l’ha deve accontentarsi dell’effetto approssimativo dei primi Grundig o Telefunken. Le immagini televisive non riescono a rendere l’effetto affascinante dell’erba viva. Allo stadio c’è la sensazione della presa diretta, dove i tifosi diventano testimoni oculari, se non veri protagonisti della domenica. Dagli spogliatoi sotto i Distinti cominciano a uscire gli staff delle squadre, compaiono i giocatori, il boato è assordante. Cinquanta-sessantamila spettatori fanno sentire la loro voce, lo stadio diventa una bolgia: sventolano le bandiere, volano dappertutto i quadratini-coriandoli di carta, la puntuale coreografia dell’epoca.

QUELL’ELENCO DI NOMI 

Sfilano le maglie bianche del Cagliari, a quei tempi quelle rossoblù sono l’eccezione in trasferta. I giocatori si intravedono da lontano, difficile riconoscerli subito tutti. Non esiste il tabellone luminoso (arriverà solo per i mondiali di Italia ‘90), c’è un altoparlante che gracchia qualcosa ma la formazione si sente giusto in Tribuna centrale. Eppure bastano i cenni d’intesa tra i tifosi a chiarire i dubbi. Sono loro, sempre loro. L’elenco è una filastrocca che diventerà leggenda nella storia del Cagliari: “Corti, Lamagni, Longobucco, Casagrande, Canestrari, Brugnera, Bellini, Quagliozzi, Gattelli, Marchetti, Piras”.  Mario Tiddia, l’allenatore di Sarroch che alterna i campi da gioco a quelli da agricoltore, crea il mito di quegli undici titolari. Per tutto il campionato - è la stagione 1978-79 - si affiderà praticamente sempre agli stessi uomini (e lo farà anche l’anno successivo, con l’innesto del solo Selvaggi), con un’idea di calcio romantico lontana milioni di chilometri dall’esasperazione tattica moderna. “Io mi fido di loro”, ripeteva nelle interviste il tecnico scomparso nel 2009 a 73 anni. I sostituti sono Ciampoli, Roffi, Graziani (Vito) e Ravot: raramente e solo nella seconda parte della stagione qualcuna delle riserve partirà titolare. 

LA SFIDA DECISIVA 

Il Cagliari alterna buone prestazioni e capitomboli improvvisi: è sempre nel gruppo di testa ma non riesce a fare il salto in avanti, come d’altronde è tradizione in un torneo caotico come la Serie B. A metà primavera diventa fondamentale battere al Sant’Elia la capolista Udinese, squadrone in vetta da settimane con cinque punti di vantaggio su Brugnera e compagni. C’è un’attesa come non si vedeva dai tempi dello scudetto: la voglia di tornare in Serie A travolge tutta la tifoseria in ogni angolo dell’Isola. Quella domenica di aprile lo stadio è pieno, non si trova un centimetro libero. La massima capienza consentita è di sessantamila posti ma i tanti “portoghesi” alzano la soglia. Nelle cronache del tempo si fa un azzardo: “Sessantottomila spettatori”, praticamente un sardo su venti è allo stadio.

GOL VINCENTE 

L’aria è elettrica, la voglia di vittoria attraversa il Sant’Elia. Il Cagliari soffre ma a metà secondo tempo Pino Bellini, ala destra romana, che resterà a vivere a Cagliari, trova il diagonale vincente che sblocca la gara. I tifosi saltano in piedi, dallo stadio esce un ruggito: si sente in mezza città, dalla Palma a Monte Urpinu, da piazza Repubblica a via Sonnino. Non è una novità per quei tempi, chi non è alla partita sa sempre quando il Cagliari segna. Ma stavolta l’urlo è più forte che mai. Finisce così, 1 a 0, i bianchi di Tiddia fanno un balzo decisivo verso la Serie A, traguardo che festeggeranno qualche settimana dopo.

Dopo il fischio finale è un corri corri via dallo stadio. La marea di gente si riversa sui due vecchi ponti di legno che attraversano il canale di acqua verde e maleodorante di Mammarranca, che poi diventerà per tutti il più elegante e ripulito Terramaini. 

LE IMMAGINI IN TV

Tutti vanno verso casa. Bisogna fare in fretta per vedere Novantesimo minuto, dove vengono trasmesse le prime immagini delle partite della giornata. Dopo la Serie A c’è “la sfida di cartello” della B: quando il conduttore storico Paolo Valenti cede la linea a Cagliari è un brivido caldo. Dopo la retrocessione di qualche anno prima sono rarissime le occasioni di vedere i rossoblù in tv nei pochi spazi dedicati al calcio dalla Rai del tempo (per fortuna si comincia a vedere qualcosa nelle neonate tv private come Videolina). Dallo schermo rimbalza in tutta Italia la filastrocca più amata dai tifosi rossoblu’: “Tiddia manda in campo Corti, Lamagni, Longobucco…”.. 

SQUADRA CHE VINCE…

La compattezza di quella squadra è tale che la stagione successiva si ritrova - praticamente identica - anche ai nastri di partenza della serie A ritrovata. Soliti riti del Sant’Elia, solita formazione: l’unica vera novità è l’innesto di Franco “Spadino” Selvaggi, che trova posto stabile in attacco, anche se Gattelli è sempre pronto a fare la sua parte. Ora il Cagliari ricompare puntualmente nelle principali trasmissioni sportive. Arrivano soddisfazioni importanti nella bolgia del Sant’Elia, come il pareggio con i freschi campioni d’Italia del Milan e soprattutto la vittoria miracolosa al novantesimo contro la super Juventus che sarà l’ossatura della nazionale campione del mondo nell‘82. 

LA VITTORIA CON LA JUVE

È un finale da infarto: il Cagliari perde 1 a 0 (gol di Bettega) in una partita che sembra stregata, ma a dieci minuti dalla fine Selvaggi (che sbaglia anche un rigore) trova il gol del pareggio. Allo scadere Bellini inventa un diagonale tagliente che vale la vittoria. Viene giù il Sant’Elia, è una festa irripetibile. La banda di Tiddia quell’anno fa sudare anche l’Inter che vincerà lo scudetto (3 a 3 a San Siro). Alla fine per i rossoblù è settimo posto in classifica. Si entra negli anni Ottanta. La stagione successiva (1980-81) regalerà addirittura la sesta posizione finale, uno dei traguardi più prestigiosi di sempre nella storia del Club nato nel 1920. Il gruppo forgiato da Tiddia comincia a perdere pezzi, l’atmosfera di quegli anni magici tramonta. Finisce un’epoca ma quel Cagliari resterà scolpito per sempre nella mente dei tifosi: “Corti, Lamagni, Longobucco…”.

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