«Feriti, mutilati, morti. In questo o quel Paese, con governi filoamericani o filosovietici, di destra e di sinistra. Sempre morti e feriti. Quasi sempre tra i civili». Le parole di Gino Strada viaggiano dall’Afghanistan alla Bosnia, al Corno d’Africa. E riecheggiano forti anche oggi, ai tempi della guerra in Ucraina, di cui stavolta non è testimone. In queste settimane di massacri feroci tanti commentatori citano a più riprese le sue annotazioni statistiche relative a Kabul, efficaci più di tanti ragionamenti. «Dei dodicimila feriti registrati in quell’ospedale, il 34 per cento erano bambini, il 26 per cento anziani, il 16 per cento donne: oltre tre quarti di loro non avevano preso parte alle ostilità. I combattenti rappresentavano appena il 7 per cento del totale», scrive il fondatore di Emergency nel libro fresco di stampa “Una persona alla volta”. Per una sorprendente coincidenza esce in concomitanza con il conflitto in Ucraina che ha scatenato l’inferno, ucciso persone d’ogni età, messo in fuga milioni di profughi, distrutto città, sconvolto equilibri geopolitici, seminato l’orrore di giorno e di notte. «Che cosa c’entravano i civili con la guerra?», si chiedeva Strada meditando su quei numeri dell’ospedale Karte-seh dove era approdato nel 1991. «Una follia la guerra contro i civili, un incubo. Ma quello era un caso specifico – avevo concluso -, unico e irripetibile. Una cosa che succedeva solo in Afghanistan. Mi sbagliavo», aggiunge nelle stesse pagine.

Al tempo Strada opera a Kabul con la Croce rossa internazionale. Ha già una solida esperienza come chirurgo. Nato nel 1948, figlio di una famiglia operaia di Sesto San Giovanni, è brillante allievo di Vittorio Staudacher, fondatore al Policlinico di Milano del primo reparto di Chirurgia d’urgenza in Europa. Studia i trapianti di cuore a Pittsburgh e Stanford, negli Stati Uniti. Poi la scoperta di quello che al tempo era il cosiddetto Terzo mondo lo porta in Afghanistan, Paese stremato dalla guerra. Nel 1994 la nascita di Emergency. «L’idea di fondo era semplice: mettere su una piccola organizzazione capace di curare i feriti di guerra anche in condizioni di emergenza», spiega nel libro-testimonianza pubblicato da Feltrinelli, sette mesi dopo la sua morte, avvenuta il 13 agosto scorso.

Le donazioni, anche sulla spinta del Maurizio Costanzo show, mettono le ali al progetto. A Kabul Emergency diventa realtà tanto radicata da essere l’unica ong occidentale testimone dell’inizio dei bombardamenti statunitensi il 7 ottobre 2001, dopo l’attentato alle Torri gemelle. L’ospedale è sempre aperto, senza badare alla provenienza dei feriti. Pochi imperativi irrinunciabili: curare bene e restare fuori dagli schieramenti per garantire assistenza medica a tutti. «Anche il più crudele dei terroristi ha diritto di essere curato come chiunque altro perché essere curati è un diritto umano fondamentale», sottolinea Strada. I numeri danno l’idea di un’attività imponente nonostante le condizioni estreme: in 22 anni di lavoro in Afghanistan, Emergency spende 133 milioni di euro raccolti tramite donazioni e fondi del Governo: 3 ospedali, un centro di maternità, 44 posti di primo soccorso, 7 milioni di persone curate e 155 mila gli interventi di chirurgia di guerra.

Gino Strada in un ospedale di Emergency (foto archivio L'Unione Sarda)
Gino Strada in un ospedale di Emergency (foto archivio L'Unione Sarda)
Gino Strada in un ospedale di Emergency (foto archivio L'Unione Sarda)

L’Afghanistan è paradigma di ogni conflitto. «Il vero scandalo è dover curare i civili, la grande maggioranza di ogni guerra», dice Strada. Riflessione ricorrente di fronte allo strazio di bambini vittime delle mine antiuomo, di giocattoli pensati per colpire i più piccoli, di corpi martoriati senza un perché.

«I dati sui feriti di Kabul – oltre il 90 per cento civili – che avevo ricavato dai registri dell’ospedale non erano conseguenza di una situazione particolare: rappresentavano la realtà delle guerre di oggi, non solo del conflitto afgano», sottolinea Strada ricordando che «le vittime non combattenti, una ogni dieci all’inizio del Novecento, erano diventate nove su dieci alle soglie del Duemila». La sua conclusione pacifista è nota, maturata sul campo, tra i centri chirurgici che Emergency apre in Ruanda, Iraq, Cambogia, Eritrea, Palestina, Algeria, Libia, Sierra Leone, Repubblica Centrafricana, oltre naturalmente in Afghanistan, spesso unico approdo di salvezza per feriti da bombe, mine, proiettili. «So per quello che ho visto con i miei occhi che la guerra non si può umanizzare. Non si può renderla meno pericolosa, crudele e folle, meno omicida e meno suicida. La guerra si può solo abolire», conclude Strada.

La grande utopia di un’umanità senza più conflitti non scalfisce la forza delle sue argomentazioni. «Fino a due secoli fa c’era chi pensava che l’abolizione della schiavitù fosse un’utopia», scrive. E poi: «Sessant’anni fa, negli Stati Uniti era un’utopia l’idea di cancellare la segregazione razziale, o anche solo pensare di candidare un sindaco nero». Aggiunge: «L’utopia può avere un passo imprevedibilmente veloce». Parole che nei tempi bui attuali possono essere un buon auspicio, ancorate più che a una profezia a una constatazione concreta alla luce del potenziale atomico che incombe sul mondo. «L’abolizione della guerra è un progetto indispensabile e urgente se vogliamo che l’avventura umana continui», scrive tra le pagine del suo libro che piomba come un ragionevole monito tra le paure e le incertezze di un mondo sull’orlo di un conflitto nucleare.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

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