Il Covid nel mondo non ha frenato solo l’economia e la vita sociale: ha anche rallentato l’emissione e l’esecuzione delle condanne a morte. E fra i parametri più leggibili per valutare il “ritorno alla normalità”, che in tanti ci auguravamo ardentemente durante i giorni del lockdown, ci sono le tabelle delle pene capitali comminate e di quelle portate a termine dopo che la prima ondata di pandemia ha rallentato.

Con una considerazione aggiuntiva: se dopo il virus (ma a giudicare dai dati l’espressione “dopo” suona comunque ottimistica e prematura) l’economia ha dovuto e deve fare i conti con la guerra in Ucraina e le sue conseguenze sul costo dell’energia e sulla galoppata dell’inflazione, non si può certo dire che l’invasione russa abbia calmierato anche i numeri delle pene capitali.

Secondo, inevitabile supplemento: i numeri sulla pena di morte sono quelli che le nazioni che la applicano sono disposti ad ammettere. Le stime quindi sono approssimative ed edulcorate. Per fare l’esempio più significativo: la Cina, che i report di Amnesty International collocano al primo posto nel mondo per esecuzioni, tratta le statistiche sulla pena di morte alla stregua di segreto di Stato. Allo stesso modo si regolano Corea del Nord, Siria e Vietnam.

Ma alla segretezza non corrisponde necessariamente un numero più alto di esecuzioni rispetto ai Paesi che comunicano più o meno in chiaro i propri dati. Dopo la Cina, che Amnesty accredita di migliaia di esecuzioni ogni anno, secondo la ong ci sono quattro Paesi che comunicano i dati senza troppi complessi e “raccolgono l’88% delle esecuzioni registrate: Iran, Egitto, Iraq e Arabia Saudita”.

Stando ai numeri più cauti e più ufficiali sui quali l’opinione pubblica mondiale possa riflettere, le sentenze di morte lo scorso anno sono cresciute del 40 per cento rispetto al 2020, quando il virus bloccava la celebrazione di molti processi, e il boia è entrato in azione il 20 per cento di volte in più. L’anno dell’apparizione del Coronavirus, insomma, era stato anche l’anno migliore per i detenuti chiusi nel braccio della morte: come spiega più specificamente Amnesty, “la flessione sarebbe dovuta soprattutto all’Arabia Saudita, dove le esecuzioni registrate sono scese dalle 184 nel 2019 a 27 nel 2020, e all’Iraq, dove le esecuzioni risultano più che dimezzate, passando da 100 nel 2019 a 45 nel 2020”. Ma appunto è bastato attendere pochi mesi e “le restrizioni causate dalla pandemia che avevano ritardato i procedimenti giudiziari sono state abolite in molte parti del mondo. In questo modo, i giudici di 56 stati hanno emesso almeno 2052 condanne a morte, con un aumento di quasi il 40 per cento rispetto al 2020. I maggiori numeri di condanne alla pena capitale sono stati registrati in Bangladesh (almeno 181 rispetto ad almeno 113), India (144 rispetto a 77) e Pakistan (almeno 129 rispetto ad almeno 49)”.

Ma per quanto la capacità di recupero del patibolo faccia impressione, in realtà il dato è meno scoraggiante di quello che appare. I numeri del 2021 sono effettivamente impressionanti rispetto a quelli del 2020, ma a parte l’anno del virus sono i più bassi del decennio. Anche perché complessivamente continua a calare il numero dei Paesi che prevedono la pena di morte, ogni anno si aggiunge almeno un nuovo nome alla lista degli Stati abolizionisti. Al 1° luglio erano 141 i Paesi che hanno rinunciato al diritto di uccidere i propri cittadini oppure lo contemplano formalmente ma di fatto non se ne avvalgono. Però tra i 54 che ancora applicano la pena di morte c’è un nucleo duro – non sempre ma spesso teocrazie – dove non si registrano flessioni e anzi il ricorso al boia è un elemento da valorizzare politicamente, sintomo di rigore morale e saldezza delle istituzioni.

È il caso dell’Iran, a maggior ragione dopo l’elezione alla presidenza di Ebrahim Raisi, che l’Ayatollah dissidente Hossein-Ali Montazeri indicava come principale responsabile dei 5 mesi di esecuzioni di massa di prigionieri politici che nel 1988 portò secondo le stime più prudenti a 8mila esecuzioni, secondo le più pessimistiche a 30mila.

A leggere il rapporto che il 16 giugno il Segretario generale dell’Onu António Guterres ha presentato alla 50ma sessione del Consiglio diritti umani – scrive la ong della galassia radicale Nessuno tocchi Caino - il numero delle esecuzioni in Iran è aumentato dalle almeno 260 del 2020 alle 310 del 2021, con numeri in crescita nel 2022, considerato che, al 20 marzo 2022, sono almeno 105 le esecuzioni compiute. Ma le stime della Ong sono più amare: “Continuando a monitorare la situazione, ad esempio, Nessuno tocchi Caino ha rilevato che nel 2021 le esecuzioni non sono state 310 ma almeno 372. Che la follia omicida scatenata dalla Repubblica Islamica nei primi sei mesi di quest’anno ha superato di gran lunga la realtà osservata dal relatore speciale dell’Onu. Al 21 giugno, Nessuno tocchi Caino ha registrato, non 105, ma almeno 260 esecuzioni”.

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