Un occhio nero gigantesco, uno sguardo gelido. Macchie di colore attorno, senza turbarne la fissità. Al di là delle sbarre del carcere di Rebibbia Domenico Giglio dipinge così l’occhio del custode che tiene sotto perenne sorveglianza il detenuto. Lui, da recluso, si affida a tele e pennelli per esprimere ciò che ha dentro. Utilizza anche il lenzuolo della cella. Grande e fragile: il fuoco, appiccato per protesta dallo stesso detenuto, rosicchia una porzione del drappo dando però un tocco inimitabile all’opera. Quel lenzuolo viene esposto in una parete del circolo culturale “Sa bena”, nel centro di Nuoro, in una mostra inusuale, andata avanti fino ai giorni scorsi e promossa dall’associazione ScartaBellArte. Si intitola “Risorse vitali”, riunisce forme espressive dalla reclusione, che sia quella del carcere, dei riformatori o dei manicomi giudiziari. Storie da brivido: anime dannate in vita tratteggiano immagini che rimandano a gironi infernali, ne sono specchio drammatico e impietoso. Ogni opera racconta un carico di dolore, un vortice di sentimenti da togliere il fiato. Tutte sono custodite dall’Archivio di scritture, iscrizioni e arte ir-ritata della cooperativa “Sensibili alle foglie”. Una collezione molto vasta, che va avanti da decenni, a cui attingere per proporre mostre sempre nuove sull’arte attecchita oltre le sbarre.

I colori sfogano la rabbia di vite tempestose e fanno emergere percorsi di sopravvivenza, non sempre di successo. L’occhio è immagine ricorrente non solo nell’arte di Giglio, detenuto campano passato alle Brigate rosse, alle spalle omicidi e sequestri di persona, recluso negli anni Ottanta nel carcere di Badu ‘e Carros a Nuoro. In cella dà sfogo a giornate sempre uguali buttandosi nella ricerca artistica. Le sue opere portano la sigla Giglio 9999, numero che sta a significare il fine pena mai. Continua l’attività pittorica fuori dal carcere, ora è un artista di successo.

L’occhio è immagine simbolo anche per Stefano Bombaci, che trascorre gli anni Ottanta in carceri speciali: mostra la sorveglianza perenne, la condizione più mortificante di ogni recluso. Così fa anche Mario Trudu, originario di Arzana, morto nel 2019 nell’ospedale di Oristano dopo 41 anni di detenzione. Viene condannato all’ergastolo ostativo per due sequestri di persona finiti male. L’arte diventa per lui l’unica boccata d’ossigeno. Nella sua narrazione grafica Trudu traccia un occhio cieco, senza iride né pupilla. Racconta le paure che ruotano attorno alla vita da ergastolano. Tra i tanti disegni traccia i ferri ai polsi, li definisce «attrezzi di tortura del periodo dell’inquisizione». «Io ne sono stato vittima per oltre un decennio», annota nel disegno realizzato nel 2015 nel carcere di San Gimignano.

Opera di Fernando Eros Caro (foto m. o.)
Opera di Fernando Eros Caro (foto m. o.)
Opera di Fernando Eros Caro (foto m. o.)

Fernando Eros Caro è l’autore di un’opera dove domina la morte: uno scheletro appare coperto da un mantello nero con il cappuccio. Tiene in mano una clessidra. Immagine forte, come la sua storia. Indigeno Yaqui-Aztec nato nel 1949 nel sud della California, dal 1981 è rinchiuso nel braccio della morte del carcere di San Quentin. Il 28 gennaio del 2017 viene trovato morto in cella: decesso per infarto, recita il certificato medico. Trascorre 35 anni dentro uno spazio angusto, in perenne agonia. Diceva: «Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».

Le opere realizzate da Franca Settembrini (foto m.o.)
Le opere realizzate da Franca Settembrini (foto m.o.)
Le opere realizzate da Franca Settembrini (foto m.o.)

Franca Settembrini, nata a Firenze nel 1947, ha undici anni quando finisce nell’ospedale psichiatrico San Salvi, in Toscana, dove frequenta l’atelier “La tinaia”. Poi approda nel manicomio giudiziario di Castiglione delle Stiviere, a Mantova, dove continua a dipingere fino alla morte nel 2003. Le sue opere sono piene di colore, pennellate forti e tenaci, espressione dei momenti più leggeri nel mezzo di un’esistenza piena di travagli.

In mezzo ai disegni, dentro una teca, ci sono pagine scritte in stampatello. Riportano la data del 16-9-91. Sono gli appunti di Fernanda Farias de Albuquerque, autrice con l’ex brigatista Maurizio Jannelli del libro Princesa. Il racconto del transgender brasiliano ispira la famosa canzone Princesa di Fabrizio De Andrè. Lei inizia a scrivere in una cella di Rebibbia. Ripercorre la sua storia, la vita transessuale, le strade della prostituzione, la metamorfosi del suo corpo. Giovanni Tamponi, detenuto anche lui nel carcere romano, la incoraggia a raccontare i suoi tormenti per non buttarsi a terra. Così fa da tramite con Jannelli fino a farli incontrare nella chiesa del carcere dove matura un processo di scrittura solidale. Il risultato è un libro. A Fernanda non basta quello né uscire dal carcere: muore suicida pochi anni dopo.

La mostra a Nuoro (foto m.o.)
La mostra a Nuoro (foto m.o.)
La mostra a Nuoro (foto m.o.)

«Documentare le risorse creative che le persone recluse utilizzano per sopravvivere all’interno delle istituzioni totali, esponendo le opere della mostra “Risorse vitali” - spiegano gli organizzatori - ha la duplice funzione di mettere al centro la persona, da un lato, e di costituire un efficace analizzatore dell’istituzione da cui quelle opere provengono dall’altro. Mettere al centro la persona vuole dire non de-umanizzare chi è recluso, non mostrificarlo, non farlo coincidere con il suo reato o la sua diagnosi».

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