Più che un augurio, per i critici d’arte il 2024 porta con sé un consiglio: cautela. Sulla stampa, o più in generale sulla cosiddetta opinione pubblica, le ricorrenze esercitano un grande fascino. È come se qualunque accadimento - un’invasione, una vittoria elettorale, l’attentato a un presidente o anche semplicemente una gaffe di risonanza nazionale - diventassero ulteriormente significativi e meritevoli di attenzione se si verificano nell’anniversario di un evento analogo. Tanto più se l’anniversario è tondo come può esserlo un secolo, ma alla bisogna anche ventennali e trentennali vanno benissimo, fanno titolo è creano suggestione.

Quindi è chiaro che uno scivolone nell’attribuzione di un’opera d’arte o un grossolano fraintendimento culturale, eventi già imbarazzanti di per sé, diventerebbero molto più rilevanti nell’anno che vede ricorrere il quarantennale della beffa dei falsi Modigliani e il sessantennale del meno celebrato, ma per certi aspetti più ingombrante, caso Pierre Brassau.

Il fatto dei Modigliani lo ricordiamo o ne abbiamo sentito parlare in tanti.

Nel 1984, centenario della nascita di Amedeo Modigliani (riecco il potere degli anniversari), venne dragato il Fosso Mediceo di Livorno per verificare una buona volta se fosse fondata la leggenda che l’artista, esasperato dalla freddezza dei colleghi verso il suo stile poco convenzionale, ci avesse scaraventato tre sue sculture per poi tornarsene a Parigi. Dopo sette giorni di perlustrazioni furono trovate tre teste scolpite nella pietra, per l’entusiasmo di Vera Durbè, che dirigeva da 12 anni il Museo progressivo di arte contemporanea di Livorno e aveva avuto grande parte nel promuovere gli scavi nel canale. Anche suo fratello Dario, che dirigeva la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, diede con convinzione le opere per genuine. In tanti e illustri si schierarono con loro (due nomi su tutti, Giulio Carlo Argan a Cesare Brandi) mentre rimasero scettici il collezionista toscano Carlo Pepi, l’editore Mario Spagnol e il critico Federico Zeri, che stroncò le opere con un lapidario (è il caso di dirlo) «se autentiche, Modigliani fece bene a disfarsene».

Quaranta giorni dopo il ritrovamento tre studenti livornesi - Michele Ghelarducci, Pietro Luridiana e Pier Francesco Ferrucci – ammisero in un’intervista a Panorama di essere gli autori di una delle tre teste, e si lasciarono filmare e fotografare mentre ne producevano un altro esemplare. Dopo qualche tempo e un appello televisivo di Zeri, spuntò fuori anche l’autore delle altre due. Stavolta era un artista, Angelo Frogila, che spiegò: «La mia è stata un’operazione concettuale, se volete in un certo senso è stata anche un’opera d’arte, come quella di Christo che impacchetta i monumenti, ma non avevo alcun intento polemico contro l’amministrazione, né contro la città, né contro i critici d’arte come singoli. Volevo semplicemente far sapere come nel mondo dell’arte l’effetto dei mass media e dei cosiddetti esperti possa portare a prendere grossissimi granchi».

E quest’ultima affermazione, già vent’anni prima, aveva avuto una solenne dimostrazione con la partecipazione di Pierre Brassau a una esposizione internazionale di giovani pittori d’avanguardia nella Gallerie Christinae a Göteborg. Le tele dell’autore francese avevano fatto sollevare il sopracciglio ad alcuni critici, ma c’era stato anche chi si era entusiasmato. Ad esempio Rolf Anderberg, firma del Göteborgs-Posten, scrisse: «Brassau dipinge con colpi potenti, ma anche con chiara determinazione. Le sue pennellate si contorcono con furiosa meticolosità. Pierre è un artista che opera con la delicatezza di un ballerino di danza classica». Una presa di posizione che non si rimangiò neanche quando si scoprì che Brassau in realtà si chiamava Peter ed era uno scimpanzé dello zoo di Borås, a 55 chilometri da Göteborg, dotato di tele e pennelli per iniziativa del giornalista Åke Axelsson, che poi aveva selezionato le opere più plausibili della scimmia e le aveva fatte inserire nell’esposizione. Anderberg comunque tenne il punto con una certa dignità, spiegando che continuava a ritenere i quadri dello scimpanzé «comunque i dipinti migliori della mostra».

La vicenda scandinava ebbe un esito opposto a quella toscana. Se a Livorno Vera Durbé fu trasferita ad altro incarico, in Svezia fu l’autore dell’opera controversa a perdere il posto. Cinque anni dopo la beffa della Gallerie Christinae lo scimpanzé Peter fu trasferito in uno zoo inglese.

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