È stato, fino a poco tempo fa, un vitigno sottovalutato e bistrattato. Addirittura estirpato, negli anni folli degli incentivi europei concessi a chi convertiva i filari in nuove coltivazioni. Ora il Bovale è nel pieno della sua seconda vita. Grazie a nuove tecniche di coltura e più attenzione al momento della vinificazione. Rigorosamente in purezza, a differenza del passato in cui questa varietà era relegata a un ruolo da comprimario, come vino da taglio, spesso utilizzato per accentuare il rosso grazie al suo colore particolarmente intenso.

Col tempo si è capito che le sue bacche sono tanto scure quanto versatili. «All’interno dei nostri dieci ettari di Bovale osserviamo grandi diversità di risultato a seconda del terreno e dell’esposizione», spiega Valeria Pilloni, amministratrice della cantina Su’entu, a Sanluri. I vitigni si sviluppano sulle colline della Marmilla, l’ideale per certe coltivazioni. «In cima abbiamo terreni argillosi e pietrosi, quasi aridi. E anche le piante ovviamente hanno un vigore diverso, che necessita di potature e lavorazioni del suolo mirate». A valle invece il fondo è più fertile, le viti crescono con facilità, la potatura è più corta. Questa diversità richiede un gran lavoro ma rende un prodotto vario, grazie al quale la cantina riesce a creare tre etichette.

«Noi abbiamo iniziato la coltivazione tra 2008 e 2009: si tratta di impianti nuovi, da subito abbiamo scommesso sul progetto di riportare la tradizione vitivinicola in Marmilla. E il Bovale fa parte di questo discorso: fino a poco tempo fa era un vitigno bistrattato e considerato di Serie B, quasi non degno di essere citati in etichetta». Perché? «Forse per un discorso economico: l’uva Cannonau veniva pagata di più. Il Bovale garantisce una produzione molto generosa ma per ottenere uva di qualità bisogna impegnarsi».

Il primo nato, nel 2012, è il Su’nico. «Le vigne erano giovani, avevamo prodotto pochi quintali per ettaro. L’obiettivo era fare un vino rosso importante. La prima prova ci aveva talmente entusiasmato che abbiamo deciso di metterlo subito in bottiglia. Poi nel corso degli anni abbiamo sperimentato il Bovale anche in altre forme, con potature diverse, e abbiamo fatto il rosato, il “Nina”, ottenuto da un procedimento simile al bianco, con una pressatura soffice e breve macerazione delle bucce». Qualche anno dopo, nel 2018, arriva il terzo fratello: «Il Su’ di terra, un rosso fresco e fruttato, diverso dal Su’nico che fa un affinamento in legno e con grappoli leggermente appassiti. Il Su’ di terra riposa solo in acciaio, acidità e sapidità sono maggiori».

Il rilancio del Bovale non riguarda solo la Marmilla e la Sardegna, ma tutta l’Italia. «Quando abbiamo iscritto il Su’nico alle guide specializzate c’erano solo altri tre Bovali», ricorda Valeria Pilloni, «mentre quest’anno sul Gambero Rosso si contavano 20 etichette. In dieci anni la crescita è stata esponenziale». Il desiderio è quello di affiancare ai due re dell’enologia sarda, Vermentino e Cannonau, una terza colonna: «Fuori dall’Isola il Bovale è poco conosciuto, è un peccato vedere solo due vini perché non sono rappresentativi della varietà che c’è in Sardegna, dove ci sono tantissimi vitigni autoctoni. Il vino è uno strumento di promozione del territorio e noi produttori dobbiamo comportarci come se fossimo degli ambasciatori».

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