I politici (di opposizione) hanno detto che l’autonomia differenziata spaccherà l’Italia in due; molti esperti di diritto costituzionale hanno sollevato pesanti obiezioni sulle procedure previste dalla nuova legge Calderoli per concedere maggiori competenze alle regioni che le chiederanno. Ma quello che è emerso poco, nel dibattito sul testo approvato definitivamente dalla Camera il 19 giugno 2024, è che le critiche forse più severe al cosiddetto regionalismo asimmetrico sono arrivate dagli economisti. Addirittura da un’istituzione cardine della politica monetaria e finanziaria del Paese come la Banca d’Italia.

La secessione dei ricchi

Si deve intanto a uno studioso di economia (Gianfranco Viesti dell’Università di Bari) anche la definizione di “secessione dei ricchi” che negli ultimi anni ha avuto molta fortuna, tra chi contesta l’autonomia differenziata. Viene utilizzata per mettere in discussione la pretesa delle regioni più forti del nord Italia, ossia Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, di acquisire maggiori poteri sulla base del controverso tema del residuo fiscale: quei territori, si sostiene, versano allo Stato centrale (sotto forma di tasse) più di quel che lo Stato restituisce loro, in termini di spesa pubblica. In realtà, la Corte costituzionale ha chiarito che il concetto di residuo fiscale non è utilizzabile nel nostro ordinamento per orientare le politiche pubbliche, se non altro perché è molto difficile da inquadrare con precisione: non sono le regioni a versare le tasse allo Stato, ma i cittadini e le imprese; ed è difficile paragonare questa grandezza economica a quella rappresentata dalle spese che garantiscono in ciascun territorio i principali servizi (sanità, istruzione e così via) o che finanziano le opere pubbliche.

I fautori dell’autonomia differenziata affermano comunque che assegnare maggiori competenze alle amministrazioni regionali più efficienti trascinerebbe verso l’alto tutta l’economia italiana. Da un lato, gestendo meglio le stesse funzioni si potrebbe “liberare”, per altri utilizzi, una parte delle risorse derivate dalle imposte pagate in quei territori; e dall’altro, tutte le regioni sarebbero incentivate a diventare più efficienti per acquisire più incisivi poteri di autogoverno.

Ma questa visione ottimistica per la crescita economica del Paese non è condivisa dalla Banca d’Italia. L’istituto di Via Nazionale ha partecipato all’esame parlamentare della legge Calderoli attraverso una lunga memoria presentata alla commissione Affari costituzionali del Senato, nel corso delle numerose audizioni che l’organismo di Palazzo Madama ha tenuto in occasione del primo passaggio del testo sull’autonomia differenziata (così come ha poi fatto l’analoga commissione della Camera, nel secondo e ultimo passaggio). Ed è proprio il capitolo dedicato alla “efficienza economica” delle nuove previsioni di legge, a evidenziare i dubbi più significativi.

Vantaggi non dimostrati

L’ufficio studi di Bankitalia sottolinea che prevedere delle asimmetrie nelle competenze delle regioni potrebbe avere effetti contraddittori: è anche vero che le migliori capacità amministrative locali di certi territori renderebbero più razionale la gestione di alcune funzioni, ma ne deriverebbe “un assetto istituzionale estremamente differenziato” che “potrebbe risultare poco trasparente per i cittadini, accrescendo i costi di coordinamento”. Non sono esclusi rischi anche per le scelte delle imprese che operano in regioni differenti, che potrebbero trovarsi di fronte a regole diverse, da regione a regione, nelle materie trasferite alle amministrazioni decentrate. E a dire il vero, si legge ancora nella memoria, “anche per i lavoratori nelle occupazioni regolate, l’esistenza di certificazioni e abilitazioni su base regionale può rappresentare un ostacolo alla mobilità geografica e alla contendibilità sessa dei mercati”.

La sede della Banca d’Italia in via Nazionale a Roma
La sede della Banca d’Italia in via Nazionale a Roma
La sede della Banca d’Italia in via Nazionale a Roma

Ma soprattutto, secondo l’analisi di Via Nazionale, non sono dimostrati neppure i teorici vantaggi del decentramento. La legge Calderoli non prevede che, quando si decide di trasferire una competenza dallo Stato a una regione, sia necessario uno studio preventivo sulla maggiore efficienza che si potrebbe ricavare delegando quelle funzioni ai livelli di potere locali. “Sarebbe invece consigliabile – osserva la Banca d’Italia – vedere un’istruttoria per ciascuna materia, suffragata da un’analisi basata su metodologie condivise, trasparenti e validate dal punto di vista scientifico, per valutare i vantaggi del decentramento rispetto allo status quo, sia per la regione interessata che per il resto del Paese”.

Infine, nella nuova legge non convincono pienamente neppure le regole che dovrebbero rendere neutrale l’impatto del trasferimento di competenze sulla finanza pubblica: “Il rischio che da tale processo possano derivare maggiori oneri per il bilancio pubblico non può essere trascurato”, scrivono i tecnici della banca centrale, per cui “la spesa complessiva potrebbe risentire della frammentazione nell’erogazione dei servizi pubblici, oltre che di maggiori costi dovuti a diseconomie di scala”. Le proposte di modifica avanzate da Bankitalia (e condivise anche da molti costituzionalisti), soprattutto sulla necessità di motivare caso per caso l’opportunità del trasferimento di competenze, non sono state però accolte dal Parlamento: solo l’attuazione concreta dell’autonomia differenziata dirà se questi timori fossero giustificati oppure no.

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