«Assolto per non aver commesso il fatto»: è il verdetto emesso dalla Corte d’Appello di Roma nei confronti di Beniamino Zuncheddu, il pastore di Burcei all’ergastolo da oltre 30 anni quale responsabile del triplice omicidio commesso sulle montagne di Sinnai nel gennaio 1991.

«È la fine di incubo», il primo commento dell’ex allevatore dopo l’assoluzione.

La sentenza, dopo una camera di consiglio durata alcune ore, è stata accolta con emozione e un lungo applauso dai tanti presenti in aula, moltissimi dalla Sardegna.

In aula lo stesso Zuncheddu per il quale i giudici capitolini, il 25 novembre scorso, avevano sospeso la pena facendolo tornare in libertà.

La Corte d'Appello ha, quindi, accolto le richieste del procuratore generale, Francesco Piantoni, che nel corso della requisitoria ha ricostruito trent'anni di vicenda giudiziaria ponendo al centro del suo discorso la credibilità di Luigi Pinna, oggi 62 anni e unico superstite della strage in cui furono uccisi a colpi di fucile, all'interno di un ovile, Gesuino Fadda, 56 anni, il figlio Giuseppe, di 24 anni e Ignazio Pusceddu, 55enne, che lavorava alle dipendenze dei due.

«Beniamino è una persona incredibile che non meritava quello che ha subito», le parole di Mauro Trogu, difensore di Beniamino Zuncheddu. «Abbiamo studiato tanto con i consulenti che mi hanno supportato - aggiunge - ci siamo convinti nell'intimo dell'innocenza di Beniamino: le carte parlavano di prove a carico assolutamente contradditorie, le indagini difensive hanno dimostrato la falsità di quelle prove. E poi perché abbiamo conosciuto Beniamino. Io auguro a chi abbia anche solo un minimo dubbio di berci un caffè insieme e questo dubbio verrà cancellato». 

La Corte di Appello di Roma nel dispositivo di assoluzione per Beniamino Zuncheddu ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura di piazzale Clodio in relazione a tre testimonianze rese in aula, tra cui quella dell'ex poliziotto che si occupò delle indagini all'epoca. Le motivazioni della sentenza del processo di revisione saranno depositate entro 90 giorni.

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L’UDIENZA – Il pg Francesco Piantoni ripercorre le tappe della strage e i motivi che hanno portato alla condanna di Beniamino Zuncheddu, spiegando che alla base dell’attuale procedimento c’è la valutazione della attendibilità del superstite, nel suo riconoscimento del responsabile, e del pastore Paolo Melis, ex dipendente della famiglia Fadda, nell’indicare Zuncheddu quale autore delle minacce rivolte a Giuseppe Fadda, figlio di Gesuino (ucciso poi nella strage), nell’estate del 1990: «Quel che fate voi alle vacche», prese di mira col fucile, «un giorno sarà fatto a voi». Versioni cambiate nel tempo tra il gennaio e il febbraio 1991: Pinna prima dice che l’assassino aveva il volto coperto da una calza di nylon e non era riconoscibile, poi dopo alcune settimane cambia versione e sostiene che in realtà il responsabile aveva il volto scoperto e dunque era riconoscibile. Melis a sua volta in un primo momento disse di aver saputo delle minacce perché gli erano state raccontate da Giuseppe Fadda, il quale neanche gli disse chi le aveva pronunciate; poi il 20 febbraio cambiò versione e sostenne di aver ascoltato con le sue orecchie quelle frasi. Entrambi, spiega in aula il pg, avevano cambiato direzione dopo l’intervento del poliziotto della Criminalpol Mario Uda.

Sul fronte alibi, Zuncheddu disse di essere rientrato dall’ovile per andare a casa di un’amica. La Corte d’assise ha ritenuto che il pastore avesse avuto il tempo di rientrare in paese, cambiarsi, tornare a Cuile is Coccus, uccidere i due Fadda e il pastore Ignazio Pusceddu e tornare a Burcei verso le 19,15 per andare dall’amica. Quindi il tempo per commettere il triplice omicidio c’era. Spuntano però due testimoni. Che sostengono di aver visto Zuncheddu in paese a quelle ore, ma i giudici di primo grado ritengono le dichiarazioni troppo tardive (erano arrivate dopo mesi dai fatti) e inattendibili. Non credibili. Quindi un altro elemento negativo per il pastore.

In appello la corte territoriale si spinge a escludere che il poliziotto Uda avesse mostrato la foto del possibile responsabile (individuato in Zuncheddu) al sopravvissuto (Pinna) prima del dovuto stringendo in quel modo in accordo definito fraudolento. I giudici definiscono il superstite corretto e affidabile. Aveva visto Zuncheddu a Cuile is Coccus. E si arriva alla condanna. Confermata in appello, dove si esclude l’accordo “scellerato” tra Pinna e la polizia giudiziaria per la vicenda della fotografia del pastore. Anche Melis viene ritenuto onesto. Non importa che abbia visto o no l’episodio; quel che conta è che l’episodio si avvenuto davvero. Riguardo l’alibi, i giudici ritengono i testimoni falsi e compiacenti. «Questo è il quadro alla base dell’ergastolo», spiega il pg. Che passa ad analizzare le intercettazioni, definite «il tema di questo processo». Cosa si capisce dalle intercettazioni? «Uda ha mostrato a Pinna la foto di Zuncheddu: questo è l’elemento centrale», sottolinea il pg: «È fuori discussione. E l’ha fatto prima che Pinna parlasse col pm». Si scopre nel febbraio 2020 quando Pinna esce dal Tribunale di Cagliari dove è stato sentito dalla pg Francesca Nanni e dai carabinieri di Cagliari proprio sull’episodio della foto. Pinna in auto con la moglie dice che poco prima «hanno detto verità e pure tante». La moglie «sembra non capire la situazione». La donna gli dice di stare zitto. Lui insiste: «Volevano che dicessi per forza che Mario Uda mi ha mostrato la foto prima. Ed è la verità. L’hanno proprio capito, Mario Uda mi ha mostrato prima la foto di Beniamino».

Quelle emerse nelle intercettazioni tra Pinna e la moglie Daniela Fadda, figlia di Gesuino, sono questioni «insuperabili», sottolinea il pg, per le quali «non c’è interpretazione alternativa». Convinto Uda, che convince Pinna, che Zuncheddu sia colpevole. Ma la foto viene mostrata prima.

Il travaso di informazioni tra Uda e Pinna «c’è stato», afferma il pg Piantoni. Il famoso «accordo fraudolento» negato dalle corti territoriali dunque c’è stato: «È proprio così». E ha retto «per trent’anni». E poi Pinna fu «indotto a tacere». Un aspetto «determinante e risolutivo: l’attendibilità di Pinna ha costituito il passaggio necessario della condanna oltre ogni ragionevole dubbio. Ma se ha mentito sulla foto, questa lealtà morale dove va a finire?». Insomma, «ha mentito per trent’anni».

«Ancor più rilevante è che» Pinna «abbia negato di aver visto la foto prima. Una accertata menzogna. Ha negato per 30 anni. Come per il volto travisato del killer. Prima l’assassino aveva la calza di nylon, poi non più. E dopo decine di anni il superstite dice alla nuora che la aveva ma se l’era tolta dopo aver sparato. Mai emerso prima. Versioni diverse l’una dall’altra. Lui stesso disse “di aver cambiato idea dopo l’incontro con Mario”, cioè l’investigatore Uda. Fino alla rivelazione a Roma, in questo processo, quando dice (lo scorso novembre) che la calza c’era. Di colore “rosa pallido”. E che si era “fidato delle dichiarazioni di Uda”».

Nel confronto di dicembre qui a Roma tra lui e Uda, vista anche la «diversa personalità» dei due, Pinna «ha retto tranquillamente» confermando quanto aveva detto a novembre. Non è venuto meno il suo «convincimento sulla responsabilità di Zuncheddu», anzi: «È convinto» sia stato lui.

Molti passaggi «gettano ombre sulle dichiarazioni di Uda», sostiene il Pg. Una «è allarmante: quando esclude che Pinna, prima di andare dal pm, avesse anticipato a lui la possibilità di riconoscere Pinna; poi a Roma dice che Pinna affermò di averlo visto». In questo quadro, che getta a terra l’attendibilità di Pinna, prova regina, restano «movente e alibi. Che sono “oggettivamente insufficienti” ad arrivare alla condanna». Paolo Melis ha fatto «una figura indecorosa». Tre versioni diverse (gli dicono delle minacce, anzi le sente; no, le sente e Giuseppe Fadda gli dice il nome del responsabile, cioè Zuncheddu). Nulla si «salva nel processo». Il movente collettivo «non è minimamente individualizzato».

LA RICHIESTA – Alla fine della requisitoria il pg ha chiesto la revoca della condanna di Beniamino Zuncheddu, dunque l’assoluzione, e la trasmissione degli atti per falsa testimonianza a carico di Mario Uda, Daniela Fadda e Paolo Melis.

LE PARTI CIVILI – Prendono la parola l’avvocata Alessandra Maria del Rio, che tutela Luigi Pinna e la moglie Daniele Fadda, e le colleghe Francesca Spanu e Rossa Palmas, che seguono Maria Caterina Fadda, figlia di Gesuino (l’altra sorella, Maria, è scomparsa un anno fa).

Rossana Palmas esordisce spiegando che ci sono persone «che hanno perso un padre e un fratello», dolore che si aggiunge a quello «di un uomo che innocente ha trascorso oltre trent’anni in carcere». Una grande amarezza «per la famiglia Fadda, confortata perché un uomo sta portando a galla una verità supportato dalla famiglia e dalla Sardegna intera».

Solo una precisazione: «Ora si sta facendo giustizia per le vittime dell’eccidio e anche per i parenti di chi per 32 anni» ha creduto a una versione che si sta dimostrando sbagliata. Dunque: «Revoca della sentenza di condanna e assoluzione per Beniamino Zuncheddu, sperando che emerga la vera vicenda che ha coinvolto la famiglia Fadda».

LA “NOTA STONATA” – Alessandra Maria del Rio anticipa subito che il suo discorso sarà la “nota stonata” dell’udienza. Perché, in sostanza, ha intenzione di chiedere la conferma della decisione di oltre trent’anni fa.

«La sentenza è emessa su base di prove sì ma anche indizi gravi, precisi e concordanti. Il processo è legato a momenti oscuri della storia italiana». Parla del giudice istruttore Luigi Lombardini, attivo nel periodo della strage e morto suicida nel 1998: l’ispettore Uda lavorava assiduamente con lui.

Luigi Pinna e Daniela Fadda «sarebbero quasi gli autori della condanna. Ma non ci sono altri indagati per la strage». C’è solo Zuncheddu. L’avvocata spiega che tre persone erano andate, prima della strage, a far «limare le armi». E c’era anche l’ergastolano, sottintende Del Rio.

«Non si può ascoltare delle intercettazioni solo quelli che ci piace», continua, sottolineando che c’è anche l’identikit precedente all’individuazione di Zuncheddu.

Credibilità: «Non è credibile chi dice di aver avuto paura?», si chiede l’avvocata. Uda «ha indubbie capacità investigative. La paura e l’attendibilità di oggi può essere considerata alla stessa stregua di trent’anni fa? Noi non stiamo cercando di capire quale sia la parte buona ma se una persona è colpevole o meno. Di capire la credibilità di testi sottoposti a questa pressione mediatica».

In primo grado c’era la paura mediatica, a cui «va aggiunta quella di oggi. Pinna disse che sarebbe voluto morire allora perché non ne poteva più. Da trent’anni ha paura. Mentre si intercettavano Pinna e la moglie per verificarne l’attendibilità, due persone mai risarcite, oggi parlano di nuovo delle loro paure e delle loro vite. Di situazioni che per Pinna erano davvero minacce».

Capitolo Melis: «La foto vista prima? Dice a Uda solo di aver assistito al confronto tra Giuseppe Fadda e un ragazzo che fu proprio Fadda a dirgli essere Beniamino Zuncheddu».

L’identikit viene portato alla luce «da Mario Uda prima delle dichiarazioni di Melis e delle rivelazioni di Luigi Pinna. Si vedono i capelli, quella specie di carciofo in testa che non si capisce cosa sia. Penso che la paura possa aver spinto Luigi a dire allora di avere paura. Quella che oggi gli ha fatto dire basta. Io credo che lui abbia visto il responsabile e che Uda gli abbia fatto vedere la foto prima, ma che Pinna lo abbia riconosciuto lo stesso. Lo ha detto nel processo: pensa di averlo riconosciuto. Non è mentire. Ha visto l’assassino e da qui nasce l’identikit: non di una calza».

L’ispettore Uda avrebbe costretto qualcuno a fare il nome di altri? «Perché? Congetture. Sequestro Murgia? Giuseppe Boi», condannato per quel rapimento, «è assente dalla vita dei Fadda fino alla strage».

Movente? «Non abbiamo solo una fonte a parlarne. Sono di più. Il convincimento di Daniela Fadda e Luigi Pinna arriva anche dai contatti che la sorella Maria Fadda ha con Mario Uda. Era Maria Fadda a portarlo nelle aziende dei confidenti. La cui identità Uda ha il diritto di non rivelare. All’epoca non c’erano gli auricolari: si andava ad ascoltare la gente».

Daniela Fadda «legge il giornale e ha paura di cose che non spaventerebbero noi. Tanti aspetti da valutare. Pinna ha detto di aver paura di essere arrestato: se non si conosce come funziona il diritto può accadere. Vista anche l’attenzione mediatica. Chi dovrà pagare un giorno pagherà, ma intanto non ci si chiede come mai non venivano intercettati gli eventuali autori di quella strage. Si poteva fare anche allora: quegli indizi dati da Libero Fadda» erano chiari.

Insomma, «non sono attendibili i cambi di rotta di Pinna. Credo che lui abbia visto il volto dell’assassino e che lo abbia riconosciuto in Zuncheddu. Riconoscimento non corretto? Ma lui ha guardato, ha piena attendibilità». Quindi l’avvocata si rimette al collegio. «Solo in caso di condanna. Non mi sento di chiedere l’assoluzione».

LA DIFESA – L’avvocato Mauro Trogu, difensore di Zuncheddu: «Negli atti c’è una pagina sola», spiega il legale, «ma significativa. Quando il presidente della corte si rivolge a Pinna, tentennante. Il presidente sollecita il teste a rispondere indicandogli tutta la gente che sta in aula. Gente, spiegava il presidente, che voleva giustizia. E chiede al testimone di prendersi la giusta responsabilità. Bene, oggi tutti noi abbiamo il dovere di svolgere il nostro ruolo. A novembre Pinna si è assunto le sue responsabilità, a differenza di altri. Quindi è ancora più forte il nostro dovere di assumere la decisione giusta».

Ma «cos’è la giustizia? Cercherò di dare il mio contributo ribadendo quel che è accertato e quel che non è accertato. E chiederò di accertare anche altro: quel che non si può escludere sia successo. La vicenda è talmente drammatica che merita il maggior numero di risposte possibili».

E ancora: «Le sentenze di condanna scontano errori di approccio alle persone che agivano in quegli anni. Decisioni dal rigore logico e formale. Ma dando alle parole dei testimoni il giusto significato, il risultato sarebbe diverso».

IL CONTESTO – Per quanto riguarda il contesto della strage, «non facile né in montagna né in tribunale. Qui si arrivava da dieci anni particolari. Dilaniato dallo scontro derivato dal caso Manuella, con l’arresto di tre avvocati accusati di aver partecipato a un’associazione dedita al narcotrafficante. Su rivelazione di un pentito. Nel processo i pentiti vacillarono. Uno confessò di essere stato spinto a muovere accuse da parte di qualche magistrato, qualche avvocato, forse dell’ordine. Nel 1987 la procedura disciplinare sul magistrato si concluse con la sua condanna per aver tenuto in cadavere quattro mesi un teste a difesa. Nel 198 c’è il nuovo codice di procedura penale. Il giudice Lombardini perde la competenza sulle indagini sui sequestri di persona la sua rete di informatori, alcuni pregiudicati, altri al limite della legalità, fanno i cani sciolti. Tra loro Giuseppe Boi, condannato per il sequestro di Gianni Murgia. Arriva la strage e il pm è uno dei due magistrati finiti sotto procedimento disciplinare in precedenza».

INDAGINI VECCHIO STILE – Trogu ricorda il libro scritto da Uda nel quale l’ex ispettore della Criminalpol spiega quali modalità investigative seguivano all’epoca, anni Ottanta e Novanta. Comportamenti, fa capire l’avvocato, superati oggi dalle tecniche attuali, ben diverse. Dunque, cosa ha portato a commettere «questo terribile errore giudiziario?».

ATTENDIBILE O NO? – Il tema “centrale” è se Pinna «sia attendibile o no». La risposta implicita del legale è negativa. E spiega perché. «Quando un testimone ci racconta un fatto, bisogna chiedersi se l’abbia percepito adeguatamente. Si può ricordare anche qualcosa che non si è percepito. E se non si è percepito, il ricordo non è affidabile. Pinna poteva vedere e riconoscere chi aveva sparato? No». Questione di posizione e luce. Nella sentenza di appello si descrive una scena che mette il killer al centro della stanza. Ma per la posizione di chi spara e delle vittime, l’assassino «è inequivocabilmente al buio. Lo stesso Pinna parla di sagoma e di collant di donna sul volto dell’omicida”.

LE VERSIONI - Pinna inoltre dà varie versioni. Prima ai carabinieri dice che l’assassino ha un collant sul volto; poi dopo 20 giorni il suo ricordo davanti a Uda si arricchisce e parla di scarponcini alti con lacci incrociati, la suola in caucciù, e c’è l’identikit. E poi c’è il riconoscimento davanti al pm condizionato dall’esibizione della foto da parte di Uda, quando Pinna immagazzina l’immagine di Zuncheddu senza però non fornire dettagli particolari».

Il superstite poi vede l’indagatore sui giornali e inizia a essere «disinformato». E «i continui solleciti esterni portano a modificare la memoria in modo involontario. In una evoluzione delle testimonianze simili la dichiarazione più affidabile in modo tecnico ed la prima, la più vicina all’evento: quella che ha meno possibilità di subire condizionamenti».

Il testimone accumula dettagli dei quali «si convince». E si ricorda cose che non si ricordava subito dopo i fatti. Elementi di cui «mai aveva parlato prima». Ecco perché si deve «credere alle prime deposizioni, a credere che allora Pinna fosse sincero».

LA PAURA – Riguardo la paura del superstite, da questi usata per giustificare il suo passo indietro sul collant che prima c’era e poi no, “non se ne fa cenno nelle settimane di indagine dopo la strage. Lui stava male ma non manifestava paura. Allora perché cambia versione? Perché ha un concetto di giustizia diverso dal nostro. Da persona semplice, vede nella forza di polizia che ha davanti la giustizia. Crede che se un poliziotto gli dice che una persona aveva minacciato il cognato e non aveva un alibi, pensa che la cosa giusta sia assicurare il colpevole a chi di dovere. Il concetto di giustizia di cui parla la corte d’assise nella condanna non è lo stesso di Pinna. La cosa giusta da fare era non lasciare libera una persona indicata come colpevole», continua la difesa.

LA BASE DELLA CONDANNA – «La Corte d’assise di Cagliari per negare che Pinna sia stato condizionato spiega in sentenza che si dovrebbe ritenere che Uda abbia fraudolentemente mostrato a Pinna la foto di Zuncheddu prima dell’incontro del pm: bene, è proprio quello che abbiamo appurato», sottolinea Trogu. Come a ribadire che è caduta la base della condanna. Uda nega però che sia davvero accaduto. Allora perché sarebbe più credibile stavolta Pinna rispetto a un ex ispettore? «Uda quando parla a Roma lo fa come uomo delle istituzioni. Così ha detto. Uda sa benissimo come si fanno le indagini. Va a casa dei Fadda e registra i colloqui dando conto di tutti i risultati ottenuti in quei primi giorni. Alcuni sono sorprendenti. Saltano fuori rapporti tra Gesuino Fadda e Giuseppe Boi di cui nessuno ha mai parlato e di cui Boi ha negato la consistenza qui qualche settimana fa. Si parla di litigi seri poi appianati, senonché Fadda in prossimità della strage si sarebbe lamentato dei traffici di Boi con i sequestri nella zona dell’ovile. Lo scrive Uda nella relazione consegnata al suo dirigente. Ma quella nota non è nel fascicolo del pm, dunque la difesa non la conosceva. E quando gli avvocati all’epoca ipotizzarono il legame col rapimento Murgia, furono accusati di essere troppi fantasiosi. Sarà vero o no? Non importa, ma no. Si poteva escludere categoricamente in quel modo. Doveva essere considerata verosimile e idonea a supportare un ragionevole dubbio».

IL MOVENTE – Per Trogu, «il movente agropastorale è verosimile ma non esclusivo». Riguardo la minaccia che sarebbe stata pronunciata da Zuncheddu a Giuseppe Fadda, si dice che è «sufficiente sapere se sia avvenuta o no. Ma se si contestualizza, un conto è una minaccia pronunciata verso una persona sola da cento metri di distanza in mezzo alla vegetazione; altro è che Zuncheddu intervenga a difesa di un ragazzino di 17 anni che si vede arrivare incontro Giuseppe Fadda in altre due persone e una roncola in mano». Infatti, la portata minacciosa «dipende molto dalle modalità in cui si pronuncia».

I DUBBI – Perché Uda avrebbe dovuto «indurre Pinna e Melis ad accusare Zuncheddu? Perché in quel momento probabilmente quel caso andava chiuso così, in ragione di ragionamenti interni nel suo ufficio. Magari neanche lui era tanto convinto ti della colpevolezza di Beniamino». L’avvocato arriva a mettere in dubbio i tanti incontri avuti da Uda e Pjnna spesso informali: «Sapeva che sarebbe stato attaccabile su quel fronte». Forse «ha voluto dare la possibilità ai giudici di salvare Zuncheddu. Ma per la Corte sarebbe stato attestare un sospetto troppo grave: quello del “travaso” di informazioni da Uda al superstite».

Ma – ha sottolineato Trogu – «i giudici non si confrontano col dubbio. Davanti a una prova gestita male e senza verifiche oggettive, il giudice deve fermarsi». Così anche per Paolo Melis, sul quale non si può fare il benché minimo affidamento. Ha reso dichiarazioni inaffidabili. E il movente contro Zuncheddu vacilla in modo definitivo».

“ASSOLVETELO” – «L’alibi di Zuncheddu esiste», ha concluso Trogu. Quindi, «in questa sentenza oltre al dispositivo si dovrebbe cercare cosa è successo all’epoca dei fatti. Simili episodi possono essere da monito solo se si fa luce attorno a essi. Revocate la condanna con una sentenza che spieghi quel che ho detto. Assolvete Zuncheddu per non aver commesso il fatto».

Dopo l’intervento di Trogu, poco dopo le 18.30 i giudici si sono ritirati in camera di consiglio.


 

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