C’era un tempo in cui, in Sardegna, l’anno non cominciava sotto i fuochi d’artificio di gennaio, ma con l’aria che cambia a settembre, quando l’estate arretra in silenzio e la terra si prepara a un nuovo ciclo.

Un Capodanno lontano dai brindisi notturni, profondamente radicato nei ritmi agricoli e nella sacralità della natura: il Cabudanni, il vero inizio dell’anno per generazioni di pastori e contadini.

Fino al Medioevo, infatti, il calendario dell’Isola – eredità dell’influenza bizantina – fissava il Capodanno al Primo settembre. Caput Anni, l’inizio di tutto.

Non una scelta casuale, ma il riflesso di una società che misurava il tempo sulla base dei raccolti, della salute degli animali, della fertilità dei campi.

Settembre era il mese dei pronostici, delle speranze, dei riti propiziatori: si osservava la natura, la si temeva e la si ringraziava, certi che fosse lei a decidere il destino degli uomini.

In quel periodo prendeva avvio l’anno agrario e si concentravano le contrattazioni più importanti per terreni e pascoli. Attorno a questo passaggio cruciale si sviluppò un ricco patrimonio di usanze che, in parte, ha resistito allo scorrere dei secoli.

Anche quando, con l’adozione del calendario gregoriano nel 1582, il Capodanno ufficiale venne spostato al Primo gennaio, molte tradizioni settembrine continuarono a sopravvivere, soprattutto nelle zone interne dell’Isola.

Tra i simboli più forti de su Cabudanni c’è il pane rituale: su cocone, sa tunda, sa rughitta e soprattutto su cabude erano prima di tutto strumenti di buon auspicio.

Il cabude, tipico del Logudoro, affonda le sue origini in epoche precristiane: preparato con semola fine, lievito madre, acqua e sale, assumeva forme diverse a seconda del destinatario. Poteva raffigurare animali, buoi o contadini, quasi a raccontare il mestiere e il destino di chi lo avrebbe ricevuto.

Il gesto più solenne spettava al capofamiglia, che spezzava il pane più grande sul capo del figlio maschio minore, invocando prosperità e continuità.

Accanto al pane, il grano era il vero protagonista dei riti di passaggio. Su trigu cottu, il grano cotto spesso arricchito con la sapa, veniva preparato – e lo è ancora oggi in molte case – come augurio di abbondanza. Un piatto semplice, diffuso dall’Oristanese al Sulcis, regalato a parenti e amici come promessa di un anno generoso. Non a caso uno degli auguri più antichi in sardo recita: “salude e trigu”, salute e grano.

Ma il Capodanno era anche tempo di questue, un’usanza che racconta una Sardegna solidale e comunitaria. Gruppi di bambini e giovani andavano di casa in casa a chiedere doni: dolci, frutta secca, pane. Un gesto che oggi può sembrare folcloristico, ma che in origine serviva a redistribuire il cibo e a rinsaldare i legami tra ricchi e poveri. A Orgosolo, questa tradizione vive ancora: fin dal mattino del 31 dicembre i bambini, con le sachetas in mano, bussano alle porte chiedendo Sa Candelaria e ricevono in cambio dolcetti e su cocone.

Il passaggio tra l’anno vecchio e quello nuovo aveva anche una dimensione più profonda, quasi mistica. Si credeva che in quella notte i defunti tornassero a visitare i vivi per augurare prosperità. A bussare alle porte, però, non erano spiriti, ma figure simboliche: uomini travestiti, donne o bambini che intonavano filastrocche di pace e abbondanza, rinnovando il legame tra chi c’era e chi non c’era più.

Non mancavano i giochi divinatori, come su giogu ’e sos olzoso: due chicchi d’orzo, gettati in una bacinella d’acqua, diventavano strumenti per interrogare la sorte e scoprire se un affetto era destinato a sbocciare o a restare lontano. Piccoli riti domestici, sospesi tra ingenuità e magia, che trasformavano la notte di San Silvestro in un momento carico di attesa.

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