Corna, fuoco e mare: l’8 dicembre secondo la Sardegna antica
Sa die ’e sa Purissima era un confine rigido: il lavoro si fermavaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
In Sardegna l’Immacolata Concezione non nasce nei sermoni, ma nelle regole non scritte dei campi, nei gesti che nessuno ricorda di aver imparato e che pure tutti conoscono.
È una festa capace persino di dettare legge agli animali da lavoro: niente aratri, niente fatica e non per devozione, ma perché le corna dei buoi, si diceva, non perdonano chi sfida la Purissima. Da lì parte tutto.
Il dogma proclamato da Pio IX nel 1854 è solo una tappa ufficiale di una storia che in Sardegna aveva già preso una direzione tutta sua.
Sa die ’e sa Purissima era un confine rigido: il lavoro si fermava, punto. Nel calendario agropastorale l’Immacolata funzionava come reset stagionale, un richiamo che teneva insieme fede, superstizione e gestione pratica della vita rurale.
Oggi il mondo è cambiato, ma la mappa dei riti continua a essere sorprendentemente nitida.
Ad Alghero, la festa inizia nella chiesa di Santa Maria e si sposta verso il porto: una processione essenziale, senza scenografie aggiuntive, che raggiunge la statua della Madonna collocata accanto all’acqua. È lì per un motivo preciso: proteggere chi parte e chi ritorna.
A Sassari, invece, l’Infiorata dell’8 dicembre, vede protagonisti i vigili del fuoco che sollevano la corona di fiori e la fissano sul capo della Vergine. Un gesto ripetuto ogni anno con la precisione di una manutenzione rituale, riconosciuto anche dall’Unesco.
Nell’Oristanese il culto all’Immacolata trova un’altra declinazione a Bonarcado, dove perfino il toponimo racconta la dedizione all’idea di “purissima”. La chiesa di Nostra Signora di Bonacattu, di tradizione romanica, è un monumento che resiste ai secoli come un documento in muratura.
Sul versante opposto dell’Isola, a Oliena, l’8 dicembre coincide ancora con sa mannale, la macellazione del maiale domestico. Una scelta che un tempo non aveva nulla di simbolico: senza frigoriferi, la data serviva per garantire sicurezza alimentare. In Sardegna molte tradizioni sono nate così: per necessità, prima che per identità.
Cagliari — città che della Purissima ha fatto la patrona dell’Università — conserva le tracce del culto in modo meno celebrativo e più stratificato.
La statua dell’Immacolata in piazza del Carmine, ruotata di quarantacinque gradi dai bombardamenti del 1943, è uno di quei segni che si è scelto di non restaurare, ma di accettare per non dimenticare. Nel quartiere Castello, invece, la topografia stessa testimonia la devozione. Portici, archi, piazzette: piccoli punti di contatto tra la città e una memoria che si infila sublime nelle architetture.
E poi ci sono i dolci, che più che “tipici” sono codici gastronomici della festa. I mustazzoleddus de mendula dell’Oristanese ( mostaccioli di mandorla con glassa lucida “a puntu”) sanciscono l’arrivo della stagione. Nel Sassarese, sa cogonelda unisce ciccioli, uvetta e scorza d’arancia in una ricetta che racconta l’ingegnosità delle cucine domestiche, capaci di trasformare ogni risorsa in un piatto “diverso”.
