Era di moda (lo è tuttora?) porre la rituale domanda agli adolescenti: "Quale lavoro vorresti fare da grande?". Molti anni fa il sottoscritto lesse una statistica affermante quanto nelle risposte il desiderio di intraprendere la carriera di "giornalista" fosse fra i più gettonati, seguito da un amaro prosieguo: "Purtroppo non ho santi in paradiso, né appigli e conoscenze". Non si dispone di valide basi per commentare tale pregiudizio. Per completezza di informazione, al primo posto figurava il voler divenire medico ospedaliero.

Cosa rappresentava, in fondo, l'attività di giornalista nell'inconscio dei ragazzi in età acerba? Un voler mostrarsi adulti, la ricerca di una verità solenne ed indeterminata, punti fermi; regnavano, nel comune sentire, tipiche frasette ispiranti fiducia come "c'è scritto nel giornale", "l'ha detto la radio", "l'ha spiegato bene la professoressa": decisamente ritenute fonti sicure al di là di ogni ragionevole dubbio. Noi tutti, che seguiamo le cronache nazionali ed internazionali, in particolare chi risiede all'estero e può osservare notevoli differenziazioni sul modo di concepire e presentare al lettore la trasmissione del pensiero, abbiamo oggi la facoltà di interpretare le evoluzioni che stanno modificando in modo sostanziale il prodotto gionalistico.

Certe licenze del passato sono state relegate in soffitta, verità ritenute inoppugnabili, in tempi odierni dove Internet funziona come "cane da guardia", non hanno ragione di esistere. L'organo di stampa che presentasse falsità palesi rischierebbe, ferma restando la libertà di pensiero, sacra ed irrinunciabile.

L'Associazione Freedom House, nata in America un ottantennio or sono, misura e comunica la consistenza della libertà di stampa in ogni angolo del mondo. Lo scrivente annota la contemporaneità, non dovuta al caso, tra la fondazione di Freedom House e la presentazione, negli Stati che lo consentirono, dello storico film di Orson Welles "Quarto Potere", una pellicola ancora oggi oggetto di profonda interpretazione. Il suddetto film, inspiegabilmente e con modifiche, potè essere presentato in Italia solo nel 1949.

Ognuno, peraltro, come avviene per tutti gli argomenti dello scibile umano, anche nel campo della stampa ha i suoi giornalisti prediletti, per il modo di comunicare un pensiero, la chiarezza del contenuto, la brillantezza della sintassi e, più di tutti, quello "stile" che contraddistingue il frasario. Senza alcuna enfasi, potremmo affermare di saper individuare l'autore di uno scritto, anche senza che questi apponga la propria firma.

Il sottoscritto, riferendosi a giornalisti non più in vita, ed escludendo coloro in attività per una sorta di opportunità, presenta la propria "cinquina" preferita in ordine rigorosamente alfabetico, per evitare futili interpretazioni: Enzo Biagi, direttore di "Epoca", "Il Resto del Carlino" e del Telegiornale; Indro Montanelli, direttore del "Giornale nuovo" e "La voce"; Piero Ottone, direttore del "Secolo XIX" e "Corriere della Sera"; Alberto Ronchey, direttore de "La Voce Repubblicana" e "La Stampa"; Vittorio Zucconi, direttore de "la Repubblica" web.

Cosa accomunava questi giornalisti che lo scrivente definirebbe "benefattori della carta stampata" e le cui differenze ideologiche scompaiono come insignificante dettaglio? In primo luogo, prima di assumere incarichi direttivi, aver conosciuto il mondo come inviati speciali ed anche corrispondenti, in Stati esteri, di organi di stampa nazionali; quindi, il toccare da vicino usi, costumi e tradizioni del pianeta. Oggi, è doveroso dirlo, per i giornali nazionali risulta sacrosanto che i giornalisti siano a contatto diretto con le realtà oltre confine. Inutile affermare quanto le sedi cardine più ambite e prestigiose fossero le permanenze a Washington e Mosca, specie nel periodo della guerra fredda: a Mosca vissero a lungo, per conto del Corriere della Sera, Repubblica e La Stampa, Ottone, Ronchey e Zucconi.

Oltre a questo, i magnifici "cinque" erano affermati scrittori e storici.

Un appunto che lo scrivente ha modo di evidenziare è la profonda disparità di genere nei punti chiave del giornalismo fra Italia e Scandinavia. In sintesi: da queste parti finniche si è avuta per due mandati una Presidente della Repubblica, anni addietro una premier di centro, attualmente una giovane premier socialdemocratica; negli organi di stampa risulta massiccia la presenza femminile, anche nei "piani alti".

Un qualcosa tende alla comicità involontaria: in Italia le persone che contano esaltano l'importanza del prestigio della donna, non accorgendosi quanto nei ruoli chiave, stampa compresa, il gentil sesso conti poco o nulla. Stupisce che le donne non reagiscano. Il sottoscritto imputa tale discrepanza, che non tramonterà mai, al maschilismo profondo e sotterraneo della società italiana, storicamente succube della tradizione cattolica millenaria.

Quali caratteristiche presenta la filmografia dedicata al tema del giornalismo, con specifico riferimento ai grandi magnati del settore che spesso o quasi sempre oltrepassano i limiti del consentito e calpestano i sacri diritti del quieto vivere comune? Due aspetti risultano predominanti: per quanto possa apparire strano, non molti registi, come suol dirsi, sono entrati "in redazione", evitando di toccare a fondo uno dei simboli della libertà individuale; ed anche, giova dirlo, ergersi a giudici supremi di torti e ragioni.

In secondo luogo, non è una sorpresa, sono tutti film "americani" al cento per cento. Ennesima dimostrazione di quanto negli USA la concentrazione e la differenziazione fra pubblico e privato, fra il consentito e l'illecito, sia di difficile o impossibile individuazione.

Abbiamo avuto recentemente l'esempio più eclatante offertoci da Donald Trump, col discorso finale del 6 gennaio. A questo proposito lo scrivente, che si ritiene grande conoscitore della mentalità italiana, espone una propria sicurezza: se idealmente a votare la preferenza fra Donald Trump e Joe Biden fossimo stati noi del Belpaese, avrebbe vinto Trump.

Come giudicare, per ultimo, la bontà scenica e la morale delle pellicole inerenti le tematiche del giornalismo? In generale, buone e tendenti all'ottimo: alcune superlative. I registi che si sono cimentati ed i protagonisti in scena sono stati formidabili, indipendentemente dal ruolo positivo o negativo rivestito. Insomma: film da vedere indossando l'abito delle grandi occasioni.

Da sinistra Dana Andrews, Thomas Mitchell e Vincent Price in "Quando la città dorme"
Da sinistra Dana Andrews, Thomas Mitchell e Vincent Price in "Quando la città dorme"
Da sinistra Dana Andrews, Thomas Mitchell e Vincent Price in "Quando la città dorme"

QUANDO LA CITTA' DORME, di Fritz Lang - 1956 - con Dana Andrews, Thomas Mitchell, Ida Lupino, Rhonda Fleming, George Sanders, Vincent Price, James Craig --- Con Lang alla regia ed un cast stellare in stato di grazia recitativa, non può che fuoriuscire un capolavoro, dove la suspense che dovrebbe prendere il sopravvento tramite uno psicopatico in vena di assassinare giovani donne, rischia di passare in secondo piano di interesse quando il mediocre e torbido erede di un impero mediatico, in primis la catena del New York Sentinel, una sorta di Rupert Murdoch attuale, decide che diventerà quello che oggi chiameremmo amministratore delegato, colui che fra i vari capi di ogni settore riuscirà a smascherare il serial killer dall'aria stralunata. Lang, con la sua maestria, ci mostra la guerra, anzi la rivalità intestina che serpeggia fra questi giornalisti in lizza per conquistare il posto dorato.

Naturalmente anche mogli, fidanzate ed amanti formano un fantastico tourbillon. Quasi scontato vinca, in fondo, il più disinteressato e forse indifferente a questa spregevole gara con colpi meschini il quale, anzi, aveva anche abbandonato il posto di lavoro dopo aver consegnato il delinquente. Sembra di assistere, mi scuso per lo squallore morale, a certi partiti italiani nel quale la rivalità per diventare il capo fa emergere le miserie dei partecipanti. Un rammarico finale, unito ad una realtà oggi sempre più in espansione: quando potremo rivedere pellicole di tale fattura? Il pessimismo cosmico dilaga. VOTO: 10 e lode

Da sinistra Jack Lemmon e Walter Matthau in "Prima pagina"
Da sinistra Jack Lemmon e Walter Matthau in "Prima pagina"
Da sinistra Jack Lemmon e Walter Matthau in "Prima pagina"

PRIMA PAGINA, di Billy Wilder - 1974 - con Walter Matthau, Jack Lemmon, Susan Sarandon --- La tranquilla, si fa per dire, routine nel palazzo di giustizia frequentato da giornalisti annoiati che giocano a carte in attesa di notizie di qualche importanza da trasmettere ai giornali cui appartengono, con l'aggiunta di schermaglie inopportune cui prende parte anche l'addetta alle pulizie, che nel prosieguo si ritaglierà una parte importante, viene interrotta dalla visita di un loro collega (Lemmon), che arriva per i rituali saluti: ha deciso di sposarsi e di cambiare mestiere. Sembrerebbe una notizia di poco interesse, se non fosse che un poveraccio condannato alla sedia elettrica ma innocente (questi americani esagerano sempre, e poi si arrabbiano quando li si prende di mira..) sfugge alle guardie andando a rifugiarsi proprio nella sala dei giornalisti in quel momento vuota (avevano paura?). A questo si aggiunga che il direttore del giornale (Matthau) è arrabbiatissimo col suo giornalista che intende congedarsi, e medita una tremenda vendetta contro lui. Naturalmente Wilder va a nozze con trame del genere somiglianti ad una farsa, ma il suo scopo è un altro: fa ruotare attorno a questi personaggi le miserie di gente potente senza scrupoli, nella fattispecie il sindaco corrotto e l'ufficiale di polizia che lo appoggia. Lemmon, secondo copione, prende l'iniziativa ed il poveraccio innocente viene liberato. Ma il direttore Matthau è ancora irritato: inventa un espediente e fa arrestare Lemmon! Povera mogliettina.. Tipico esempio di allegra combriccola che evidenzia un risvolto sociale assai deprimente. In gran forma i due protagonisti. VOTO: 9

Da sinistra Dustin Hoffman e Robert Redford in "Tutti gli uomini del presidente"
Da sinistra Dustin Hoffman e Robert Redford in "Tutti gli uomini del presidente"
Da sinistra Dustin Hoffman e Robert Redford in "Tutti gli uomini del presidente"

TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE, di Alan J. Pakula - 1976 - con Robert Redford, Dustin Hoffman, Jason Robards, Martin Balsam --- Questo film, che oggi può definirsi storico, potrebbe non impressionare coloro che per ragioni anagrafiche non hanno vissuto in presa diretta quel periodo, ed ignorano con quale stato d'animo tutte le società occidentali, insieme agli USA, lo seguirono. In Italia allo scrivente rimangono impresse le polemiche, e gli scontri ideologici, fra le testate conservatrici e progressiste. Lo scandalo Watergate, tipico esempio di corretto giornalismo d'inchiesta (e non d'assalto, come molti stolti ritennero) fu il baricentro di quella America che tutti al tempo abbiamo ammirato. Il segretario della Democrazia Cristiana Benigno Zaccagnini fu esemplare e coraggioso: contraddicendo molti capi illustri del suo partito, giudicò esemplare il processo contro Richard Nixon. Il film: Pakula non sbagliò nulla, scelse alla perfezione i due protagonisti Redford e Hoffman, ed i comprimari (indimenticabile la bravura e la serafica metodicità di Robards, direttore del giornale, premio Oscar).

Curioso osservare la figura di Nixon: qualche anno prima, nel 1972, fece la storica visita in Cina, primo presi

ente americano. Dopo il processo e le dimissioni, libero cittadino, tornò un paio di volte nel gigante asiatico. E fu sempre accolto benissimo. Quando le ideologie opposte convergono... VOTO: 10

Cary Grant e Katharine Hepburn in "Scandalo a Filadelfia"
Cary Grant e Katharine Hepburn in "Scandalo a Filadelfia"
Cary Grant e Katharine Hepburn in "Scandalo a Filadelfia"

SCANDALO A FILADELFIA, di George Cukor - 1940- con Katharine Hepburn, Cary Grant, James Stewart --- Questo è uno dei cult inarrivabili della commedia brillante: quando si dispone di un regista come Cukor, maestro di questo genere, ed interpreti del livello della Hepburn, Stewart e Grant, tutto è relativo e sottinteso. Una voce mai confermata ma plausibile attribuisce alla necessità di sollevare lo spirito dell'America dal nervosismo per i tragici eventi bellici provenienti dall'Europa, l'idea della realizzazione della pellicola. Avviene un qualcosa di socialmente esplosivo, in senso positivo: l'ambiente della storia è quello della borghesia più sofisticata, rappresentata dalla Hepburn e Grant, che si mandano a quel paese separandosi; in questo contesto si introduce il giornalista Stewart, che è eccezionale (vincerà infatti l'Oscar), mandato come inviato dal suo giornale, nell'applicare in misura sempre più ascendente i ferrei cànoni appresi nella lunga esperienza professionale: in primo luogo la calma (niente spintoni, naturalmente), il graduale convincimento senza forzare più di tanto, addirittura la sceneggiata fittizia che lo vorrebbe innamorato della protagonista. Suo scopo, che naturalmente avrà successo, è quello che i due bricconi-ricconi ritornino insieme: la coppia è salva, il perbenismo americano trionfa. La morale di Cukor è esplosiva: lei all'inizio, piantato Grant, vorrebbe risposarsi con un "politico", che naturalmente è "noiosissimo". Chissà se il regista americano non avesse previsto quanto in Italia lo sarebbero diventati in misura esorbitante! VOTO: 10

Kirk Douglas in "L'asso nella manica"
Kirk Douglas in "L'asso nella manica"
Kirk Douglas in "L'asso nella manica"

L'ASSO NELLA MANICA, di Billy Wilder - 1951 - con Kirk Douglas --- Inutile scrivere altri interpreti di questa pellicola entrata a buon diritto nella cerchia preferita dai cinefili più incalliti: il nome del protagonista cancella gli altri, comparse che perdono di significato. Mai Kirk Douglas, eroe positivo per eccellenza nell'immaginario collettivo, ha indossato un ruolo più negativo di questo (solo "Le catene della colpa", un altro gigantesco capolavoro, può in parte tenergli testa). Ma altrettanto, raramente il grande regista Billy Wilder, autore di eccelse pellicole tendenti all'ottimismo sociale, prese a cuore storie di un pessimismo alle stelle come questo, permeato di una morale rivoltante. Altresì, più che mai, l'opinione pubblica deve accettare, anzi applaudire certi film distruttivi come questo, specialmente da un punto di vista educativo. La storia è di un orrore proverbiale e stringato: un poveraccio minatore è imprigionato nel sottosuolo: solo la tempestività dei soccorsi può salvarlo. A contatto con lui vi è un giornalista che ha un solo pensiero fisso: migliorare la sua posizione all'interno dell'organo di stampa. Quindi, affinché l'opinione pubblica, assetata di una convulsa emozione, ed i media in generale aumentino l'interesse morboso verso il caso "umano", il bellimbusto cronista tira per le lunghe l'intervento liberatorio dei soccorsi: vuole, in sostanza, che il tutto si risolva "all'ultimo minuto". In questa attesa, il minatore muore. Le cronache affermano che molte proteste accolsero l'uscita del film. Sbagliato! Il lieto fine liberatorio non esiste: certi temi sociali abbisognano di esempi negativi, per imparare certe lezioni. La pellicola, per inciso, ebbe in Italia una non semplice facilità di accesso: altro errore, ma osservando i tempi, nessuna sorpresa. Memorabile l'ultima sequenza: Kirk Douglas che crolla a terra sopraffatto dal pentimento vale più di certi incoraggiamenti superflui. VOTO: 10

Da sinistra Richard Conte e James Stewart in "Chiamate Nord 777"
Da sinistra Richard Conte e James Stewart in "Chiamate Nord 777"
Da sinistra Richard Conte e James Stewart in "Chiamate Nord 777"

CHIAMATE NORD 777, di Henry Hathaway - 1948 - con James Stewart, Lee J. Cobb, Richard Conte --- La pellicola prende spunto da un fatto realmente avvenuto, quando in America il connubio fra divieto di alcolici e Grande Depressione aveva fatto sorgere seri problemi di ordine pubblico, delinquenza e il sorgere di locali clandestini privi di autorizzazione. Hathaway, regista di grande mestiere, rispolverò molti anni dopo i fatti reali a sommi capi la vicenda di un innocente, già in carcere da troppo tempo accusato di aver assassinato un poliziotto. La madre raccolse i soldi del duro lavoro e fece pubblicare su un giornale un annuncio che chiedeva di riaprire il caso, convinta della non colpevolezza del figlio (Conte). Fortuna volle che il direttore di un giornale (Cobb), dotato di intuito, lo lesse ed ebbe l'opportunità giusta di affidare il caso ad un disilluso giornalista (Stewart). Il resto è intuibile ed alla fine giustizia sarà fatta. Cosa colpisce nella pellicola? Nessuna sorpresa nell'unicità di James Stewart: qualunque ruolo gli affidi, non sbaglia un colpo; la sua cooperazione col direttore funziona a meraviglia e non desta sorpresa che i due adottino anche degli stratagemmi ai limiti della legalità, per entrare nelle stanze degli uffici di polizia, al fine di ottenere documenti scottanti a favore del condannato innocente.

Desta soddisfazione osservare in quel lontano periodo il frenetico lavoro all'interno della redazione del giornale; molto curiosa la visione dei macchinari, che oggi definiremmo naturalmente obsoleti, a disposizione dei giornalisti. E l'ingrandimento di alcuni caratteri di un quotidiano per determinare il giorno di uscita, sarà decisivo per la scarcerazione dell'incolpevole. VOTO: 8½

Orson Welles e Joseph Cotten in "Quarto potere"
Orson Welles e Joseph Cotten in "Quarto potere"
Orson Welles e Joseph Cotten in "Quarto potere"

QUARTO POTERE, di Orson Welles - 1941 - con Orson Welles, Joseph Cotten, William Alland, Dorothy Comingore, Everett Sloane, Paul Stewart --- Premessa indispensabile: il film è in bianco e nero, impossibile e dannoso il solo immaginarlo a colori. Perché la pellicola è entrata nella storia del cinema? Lo scrivente cerca di enumerare a suo giudizio i punti salienti, perché la trama (riferimento da parte di Welles alla vita romanzata del vero magnate della stampa e dell'industria William Hearst non è certo un qualcosa di essenziale; costui, piuttosto, cercò in tutti i modi di boicottare il lavoro di Welles, ed in parte ci riuscì, imponendone l'ostracismo). Il giovane guascone Welles, prima del film, aveva terrorizzato l'America via radio, asserendo che i marziani erano atterrati nel sacro suolo. Ottimo esempio per inquadrare umanamente questo genio. Firma il contratto: è il factotum, possiede tutte le prerogative che solo Charlie Chaplin aveva posseduto.

Importante psicologicamente, visti i tragici tempi: com'era il mondo quando scrisse la sceneggiatura ed effettuò le riprese? Allo sfascio: il nazismo travolgeva con la guerra lampo Polonia, Danimarca, Norvegia, Benelux e Francia, ed era in corso la battaglia d'Inghilterra; a fine riprese era iniziata l'invasione dell'URSS, e gli USA ancora tentennavano. Come avoca Welles nella sua persona il tutto, occupando anche gli strapuntini? Nomina nel cast attori sconosciuti, tranne il suo grande amico Joseph Cotten; fa compiere miracoli ai truccatori: lui è venticinquenne ed è stupefacente come il suo viso, abbracciando l'intera esistenza, si adatti perfettamente al trascorrere del tempo; ma ancora più fantastico è osservare i movimenti: anche gli sguardi, gli occhi sgranati, il camminare in scioltezza, agilità (straordinario quando balla), o quasi arrancando, destano meraviglia. Ma l'aspetto più incredibile, essendo anche regista, è l'uso della macchina da presa: Welles ha imparato alla perfezione le tecniche dei suoi predecessori Victor Sjöström e Friedrich Murnau; impone in misura stressante ed inquietante la profondità di campo (in pratica, l'ambiente visto in prospettiva), ed il grandangolo: inclinare il teleobiettivo, permettendo la visione del terreno e delle pareti oblique, quasi gravassero come un macigno sul personaggio; effetto unico, specie nelle sequenze drammatiche e coinvolgenti. Per quanto riguarda il film, sembra che Welles voglia giocare a rimpiattino con lo spettatore: assume le sembianze di Charles Foster Kane, la prima e l'ultima sequenza sono dedicate al cartello rigido "No trespassing", attaccato ad una robusta inferriata, quasi che gli "estranei" non abbiano diritto ad interferire.

E' vanitoso: fa affiggere che "The greatest newspaper staff in the world" appartenga ad una delle sue pubblicazioni. Il punto fisso, tema centrale dell'intera pellicola, consiste nel rendere problematico, ai limiti dell'impossibile, una volta deceduto, è "far capire" a chi l'ha conosciuto gli esatti connotati della sua persona. Ci riesce benissimo: un giornalista interroga quattro persone che gli sono state vicine; inequivocabile constatare quanto questi soggetti lo descrivano in modo differente. Per ultimo: perché, rivisto oggi, il film desta ancora meraviglia? Fra altre, una constatazione: si è talmente abituati all'ordinario, al compitino fatto alla svelta senza alcuna scossa né brivido, che davanti al "sole splendente" si riversa l'entusiasmo e l'essere costretti a "ragionare e meditare", esercizi mentali quasi sconosciuti, di questi tempi, davanti alla settima arte. VOTO: 10 e lode

Jean Harlow e Robert Williams in "La donna di platino"
Jean Harlow e Robert Williams in "La donna di platino"
Jean Harlow e Robert Williams in "La donna di platino"

LA DONNA DI PLATINO, di Frank Capra - 1931 - con Jean Harlow, Robert Williams, Loretta Young - Emigrato con la famiglia dalla nativa Sicilia in America, è uno dei primi film sonori di Capra, ma già le sue unghiate moraleggianti usando il fioretto si mettono in evidenza: strenua difesa della persona comune al cospetto dell'imperiosa e vuota ricchezza nobiliare; il tutto viene esplicitato senza peraltro scalfire i potenti, usando l'implacabile forza della satira, e renderli talvolta ridicoli (si veda la servitù dei ricconi parteggiare sottilmente per il giornalista). Capra è pungente quando mostra come in uno specchio l'illusoria superiorità del denaro. Le "persone comuni" sono i due fidanzati Williams e Young, giovani giornalisti giocherelloni all'interno di una redazione molto affiatata. Lui viene incaricato di far visita ad una famiglia dotata di immensi patrimoni ed abituata ad elargire bustarelle alla stampa perché metta tutto a tacere. Quando il nostro eroe si presenta, rifiuta i soldi sdegnato. Fra i componenti la famiglia, lei, quella coi capelli color platino (la Harlow, simbolo della seduzione, oggi soprannominata la Marilyn Monroe degli anni Trenta: morì giovanissima) si innamora viceversa del giornalista, lo sposa e vanno a vivere sfarzosamente fra i lussi più ostentati. Inevitabile che il gioco finisca e lui si stufi: per stendere un suo racconto torna dalla sua fidanzatina e trova l'ispirazione; lei lo accoglie con le lacrime agli occhi. Un particolare: alla fine (c'era da dubitarne?) tutta la redazione accoglie trionfalmente l'effimero transfuga che aveva osato allontanarsi dalla spensierata e gioiosa compagnia di amici. VOTO: 8½

SPOTLIGHT, di Tom McCarthy - 2015 - con Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, Liev Schreiber, ... --- Il primo aspetto che bisognerebbe analizzare nell'includere tale famosa pellicola in questo elenco, è il profondo convincimento di un eccezionale esempio di "giornalismo" allo stato puro, quindi il voler comunicare eventi accertati a beneficio della collettività, che ne farà un uso opportuno.

La sete di conoscenza è alla base della democrazia. Per la cronaca, anche all'epoca dello scandalo Watergate si levarono, per fortuna lievi, segnali di dissenso. Spotlight è una brutta storia attuale ma specialmente pregressa, diciamolo subito. Una "brutta storia" che ha origini millenarie, e diventa "bellissima" perché un gruppo affiatatissimo di giornalisti investigativi del "Boston Globe" è andato fino in fondo nello spulciare carte, trovare testimoni diretti e prove che inchiodano una serie infinita di vergogne sessuali del clero cattolico, specialmente nei riguardi di bambini. Giunti a questo punto, dovremmo domandarci freddamente: qualcuno, indipendentemente dalla propria fede religiosa, dall'essere o meno credente o di cultura laica, è veramente sorpreso per queste verità che vengono a galla? Chi segue gli eventi del mondo sa da tanto tempo (un solo esempio fra centinaia: il ritrovamento in Irlanda di un numero infinito di cadaveri di infanti frutto di relazioni all'interno degli oratori). I giornalisti del "Boston Globe" hanno ufficialmente scosso le coscienze. In Italia, Paese laico per la Costituzione, la Chiesa ha sempre esercitato una fortissima influenza presso la società (si pensi al periodo di Eugenio Pacelli), orientandola secondo le esigenze da lei volute. Oltre a questo, poteva esigere anche altri imprimatur di un'assurdità totale come il tentare, per fortuna senza successo, il divieto di proiettare nel territorio nazionale il film "Ladri di biciclette" di Vittorio De Sica, che nel mondo riceveva entusiastici riconoscimenti. Quindi i giornalisti di Boston hanno offerto un fulgido esempio di servizio pubblico e professionalità fuori dal comune. Onore a loro. VOTO: 10 e lode.

Charles Laughton in "Il tempo si è fermato"
Charles Laughton in "Il tempo si è fermato"
Charles Laughton in "Il tempo si è fermato"

IL TEMPO SI E' FERMATO, di John Farrow - 1948 - con Charles Laughton, Ray Milland, Elsa Lanchester --- Tipico esempio di capolavoro che ha come sfondo uno dei grandi palazzi di un magnate della stampa interpretato da Charles Laughton. Questo incredibile attore possiede una caratteristica: qualunque ruolo di protagonista rivesta (positivo o negativo), sprizza simpatia da tutti i pori. Un professionista senza pari. Il motivo è semplice: Laughton proviene dalla grande scuola inglese del Teatro. Come lui i vari Ralph Richardson, Peter O'Toole, Laurence Olivier, Julie Andrews, Richard Burton, Alec Guinness...Nella pellicola in questione Laughton riunisce spesso in una grande sala capi e responsabili delle numerose testate: usa modi spicci, emerge la sua maleducazione, se non il disprezzo verso tutti, per un motivo preciso: le vendite calano paurosamente, c'è aria di licenziamenti; emerge il suo trattare questi direttori come pezze da piedi. Più si dimostra sprezzante, tanto più emerge la sua caratura di attore perfezionista.

Incarica uno dei capi, il buono Milland, a escogitare idee nuove, pena il licenziamento in tronco. Il problema è che entrambi, specie il magnate, hanno una doppia vita: in sostanza Laughton uccide un'amante e del delitto viene accusato Milland. Il "palazzaccio" teatro delle operazioni, con un via-vai turbinoso di giornalisti che danno l'idea di una certa peculiarità degli organi di stampa americani (bravissimo il regista a documentarli e mostrarli a dovere) diventa, con i telefoni che squillano in continuazione, ascensori in perenne movimento, segretarie da tutte le parti, infine anche l'intervento della polizia, la pietra tombale della vita del magnate, vittima, ironia della sorte, del difettoso funzionamento di un ascensore. Curioso: Laughton espia le proprie colpe, ma forse qualcuno tifava per lui. VOTO: 9

Humphrey Bogart in "L'ultima minaccia"
Humphrey Bogart in "L'ultima minaccia"
Humphrey Bogart in "L'ultima minaccia"

L'ULTIMA MINACCIA, di Richard Brooks - 1952 - con Humphrey Bogart, Ed Begley, Martin Gabel, Ethel Barrymore --- Pellicola a suo modo memorabile per una molteplicità di motivazioni, che vanno dalle vecchie metodologie della confezione di un giornale, la concitazione interna, le vorticose rotative, gli inchiostri, fino agli indimenticabili strilloni che per le strade pubblicizzavano la più recente notizia "sensazionale".

Lo si potrebbe nominare il "c'era una volta" che qualche inguaribile ma affezionato romantico posiziona nella memoria per non dimenticare. Tale atmosfera si evidenzia in questo film, giustamente passato agli annali del giornalismo, una bandiera, un fortino da difendere a denti stretti, quale sia la risultante definitiva. Ma è anche l'ennesima conferma di quanto il film in questione, che in Italia Cesare Zavattini definiva con entusiasmo "pane e salame", diretto da Brooks, col poco capitale a disposizione, abbia lasciato una traccia indelebile, essendo quello che un gionalista posiziona per antonomasia fra i preferiti, forse il numero uno. Altra considerazione: chi volesse un definitivo esempio di "attore carismatico", dovrebbe, deve immediatamente pensare a Humphrey Bogart; inimmaginabile concepire (come avvenne per "Casablanca" e "Acque del Sud"), il film senza lui, che fino allo stremo, come direttore del giornale "The Day", combatte per evitare l'inevitabile vendita della testata ad un concorrente in combutta con un poco di buono, dagli italo-americani definito "gangster". Straordinarie le sequenze di Brooks mentre inquadra tutte le maestranze del giornale che si riuniscono , si osservano senza parlare, in attesa del licenziamento inevitabile.

Curiosa l'analisi morale della famiglia proprietaria del giornale di Bogart che ha deciso la vendita del quotidiano: dall'iniziale unanimità si passa a qualcuno/a che si pente e vorrebbe recedere, ma è ormai troppo tardi. Il passaggio di consegne è ormai prossimo, questione di ore, il gangster preme e "minaccia" Bogart, sguinzaglia i suoi sgherri per impedire la pubblicazione del diario di una fanciulla deceduta per colpa del malavitoso. E' il "telefono" a sanzionare l'ultimo scambio di battute fra il direttore, rappresentante l'intera comunità, ed il delinquente. Nonostante il rumore spasmodico ed assordante delle rotative, emerge la proverbiale filippica: "E' la stampa bellezza, la stampa, e tu non puoi farci niente". Bogart ha perso la carica di direttore, ma tornando a casa dalla famiglia, lo farà a testa alta. VOTO: 10 e lode

Gary Cooper e Jean Arthur in "È arrivata la felicità"
Gary Cooper e Jean Arthur in "È arrivata la felicità"
Gary Cooper e Jean Arthur in "È arrivata la felicità"

E' ARRIVATA LA FELICITA', di Frank Capra - 1936 - con Jean Arthur, Gary Cooper, Lionel Stander, George Bancroft --- Frank Capra esplode con questa pellicola che, parole sue, era l'ennesimo tentativo, riuscitissimo, di far superare alla sonnacchiosa e malinconica America, i postumi ancora presenti della Grande Depressione. Non sbaglia nulla, a cominciare dai due protagonisti Cooper e Arthur, i comprimari e per finire gli innumerevoli caratteristi, che hanno lasciato, anche apparendo in pochissime brevi sequenze, una traccia indimenticabile. Il film è una micidiale satira contro le apparenze, le buone maniere, la scala gerarchica degli individui che si ritengono superiori, ed al contempo mostra la errata e deleteria messa in stato di accusa verso tutte le persone che prendono decisioni umanitarie a favore della povera gente, inaccettabile per definizione da parte di una borghesia che Capra mostra piena di tic nervosi inimmaginabili e burleschi, per evidenziarne lo squallore interiore. Ma nulla è dovuto al caso, a cominciare con l'imbranato Cooper che diventa erede di una fortuna, è costretto a trasferirsi nella Grande Mela per decidere come impiegare il grosso capitale. Naturale che la stampa si interessi al suo caso, ed il direttore di una importante testata (Bancroft) sguinzagli una brava e bella cronista (Arthur) per mettere alla berlina, deridendolo, il buon Cooper. Facile capire che col tempo i due si innamorino, rievocando anche gli struggenti comuni ricordi del luogo nativo, che lui destini alla gente appezzamenti dove far sviluppare l'agricoltura. E' considerato un megalomane, denunciato, uno psichiatra nel processo in tribunale lo definisce un paranoico, esibendo un malefico gigantesco diagramma simile ad un sinusoide impazzito. Anche il direttore del giornale si ricrede, si pente ad aiuta la povera colombella innamorata.

La parte conclusiva è dedicata appunto al processo contro Cooper: raramente lo scrivente ha assistito ad un qualcosa di più esilarante, basti pensare che il presidente del tribunale, bontà sua, nel verdetto finale ammette senza remore che in tutta l'Aula, se stesso compreso, il più sano di mente è il buon Cooper. La satira contro le persone stupide, sosteneva Capra, è più micidiale delle presunte colpe degli uomini onesti. VOTO: 10

Mario Sconamila

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