Un genere fondamentale della cinematografia, da decenni, è praticamente estinto: il "Noir". Una consunzione non medica, che nulla ha a che vedere col deperimento fisico o psichico. Il noir è stato uno dei cavalli di battaglia dei nostri padri e nonni, anche perché riflette lunghi periodi di crisi economiche o rivalità belliche e ideologiche.

Ennesimo esempio di quanto il Cinema sia influenzato dall'ambiente nel quale le società si dibattono.

Una particolarità caratterizza il noir: rigoroso "bianco e nero" delle pellicole, delinquenza di qualsiasi tipologia regnante sovrana, glaciali maschere funeree degli interpreti, ambienti dominati dall'inosservanza delle regole, opinione pubblica spesso riluttante a collaborare con la giustizia, ma soprattutto un aspetto sorprendente: spesso la distinzione fra buoni e cattivi è indecifrabile, nessuna delle due parti può considerarsi a prova di onestà, ed anche lo Sherlock Holmes di turno possiede notevoli scheletri nell'armadio e complessi di colpa.

Il noir ha lanciato interpreti entrati nella leggenda.

Perché oggi è improponibile? Il bianco e nero è quasi inesistente, né sarebbe accettato dal pubblico.

In sintesi, è bene ammetterlo, manca la materia prima: valenti cineasti del genere noir; interpreti maschili e femminili adatti, con rughe, barbe incolte e facce da galera i primi, sgraziate o "donne fatali" le seconde.

Adesso il pubblico pretende il "bello", il "colore" la "luce". Il "buio", anche simbolico, spesso componente fondamentale del noir, è scomparso.

Come in un caleidoscopio, pervengono nella mente dello scrivente centinaia di pellicole analizzate nel tempo: lo spazio è tiranno, preponderanza di rinunce dolorose, esposizione alla rinfusa di quelle, famose o rarissime, sempre stampate nella memoria visiva.

"Il grande sonno", di Howard Hawks – 1946 – con Humphrey Bogart e Lauren Bacall. Trama intricatissima e sconosciuta anche agli interpreti, che recitavano d'istinto, improvvisando. Ma Hawks sapeva quanto tale iniziativa avrebbe resa immortale la pellicola.

"Detour", di Edgar Ulmer – 1945 – con Tom Neal. La normale richiesta di un passaggio in macchina scatena un incubo senza fine, nel quale l'iniziale moralità del protagonista si trasforma in un precipizio impossibile da evitare. Le tragedie nascono dal caso, dagli incastri e dai parallelismi dei doppi incontri fortuiti.

"Il bacio dell’assassino", di Stanley Kubrick – 1954 – con Irene Kane e Jamie Smith. L'esordiente ragazzo Stanley Kubrick, senza soldi, con la sola macchina da presa, interpreti presi dalla strada, come teatro il quartiere dove abita, mostra subito il suo genio. Morale: se vediamo o sentiamo una vicina di casa urlare disperata, bisogna intervenire, anche se siamo in crisi di identità. Può anche sopraggiungere l'insperato affetto.

"La morte corre sul fiume", di Charles Laughton - 1955 – con Robert Mitchum. Attenzione ai falsi profeti di indole religiosa: per il vil danaro possiamo trasformarci in mostri. Mitchum è eccezionale anche nel ruolo di cattivo e le sue caratterizzazioni brutali rimangono proverbiali. Uscisse oggi, farebbe incetta di Oscar meritatissimi.

"Il pensionante", di Alfred Hitchcock – 1927 – con Ivor Novello. Dovete affittare per necessità una camera all'interno della vostra casa? Se la concedete ad uno sconosciuto dal volto impenetrabile, se nel quartiere avvengono assassini di ragazze bionde, e vostra figlia è bionda, non preoccupatevi: tifiamo da subito col presunto responsabile, non con l’antipatico investigatore. Alcune soggettive di Hitchcock appartengono alla storia del Cinema.

"Il corvo" (Le Corbeau), di Henri-Georges Clouzot – 1943 – con Pierre Fresnay. Noir psicologico e tragico, fedele e perfetta testimonianza della Francia sconvolta dall'occupazione nazista. Sospetti, odio, minacce anonime, tutti contro tutti, donne in antitesi fra loro. Esempio di quanto il Cinema identifichi il periodo storico.

"La caduta della casa Usher", di Jean Epstein – 1928 – con Marguerite Gance e Jean Debucourt. Questa impressionante pellicola noir, un misto fra il mistero e il dilemma dell'impossibilità di offrire spiegazioni legate all'irrealtà fantastica, andrebbe presentata a certi registi privi di inventiva. Le tecniche usate da Epstein, dopo un novantennio, destano ancora scalpore e meraviglia.

"La donna fantasma", di Robert Siodmak – 1944 – con Alan Curtis e Ella Raines. Non va d'accordo con la moglie, esce, incontra una donna con uno strano cappello. Al ritorno, la moglie è stata strangolata. Condannato, la sedia elettrica si avvicina. La "donna col cappello" sparisce ..., bisogna diffidare di amici paranoici, ma la sua segretaria, fedele e infatuata, non si arrende e lo salva. Imperdibile.

"La foresta pietrificata", di Archie Mayo – 1936 – con Humphrey Bogart, Bette Davis e Leslie Howard. Tutto in una stanza claustrofobica: il bandito Bogart è più comprensivo e umano del riccone che arriva. Il romanziere d'altri tempi è fuori dal mondo reale. La giovane tuttofare idealista assiste. Bogart, Howard e la Davis impartiscono una memorabile lezione di recitazione: bene farebbero i presunti divi di oggi a prendere appunti.

"Il ritratto di Jennie", di William Dieterle - 1948 - con Jennifer Jones e Joseph Cotten. Qui non c'è violenza né assassinio. Il pittore di turno dipinge la ragazzina celestiale che cresce fino a diventare donna in pochissimo tempo, ed accorgersi che è deceduta anni prima di averla conosciuta. Inevitabile rimanga solo col suo ritratto, nel drammatico ultimo immaginario incontro. Trionfo del fantastico.

"Piove sempre la domenica", di Robert Hamer - 1947 - con Googie Withers. Incredibilmente proibito al pubblico, è lo specchio impietoso della Londra del dopoguerra, con la pioggia sempre presente. Un ricercato fuggito dal carcere mette in crisi esistenziali le donne che lo circondano, a cominciare dalla sua ex amante. Tutti vengono sconfitti, coi segni alienanti della guerra mondiale.

"Quando la città dorme", di Fritz Lang - 1956 - con Dana Andrews e Ida Lupino. Il geniale Lang esamina il contrasto fra uno psicopatico assassino di donne e i membri di un impero editoriale in lotta fra loro per succedere alla direzione. L'esito non è scontato. Capolavoro assoluto. Lo scrivente vuole onorare Ida Lupino, un'attrice-regista mai valutata come avrebbe meritato.

"La scala a chiocciola", di Robert Siodmak - 1945 - con Dorothy McGuire. Per anni il pubblico specie femminile evitava finché poteva la visione: la paura gelava il sangue. Siodmak conosceva le teorie dell'espressionismo germanico, sua patria originaria. Le elaborazioni distorte del corpo della ragazza presa di mira dal maniaco, lasciano tuttora di stucco. Da vedere e rivedere.

"La donna del ritratto", di Fritz Lang - 1944 - con Edward G. Robinson e Joan Bennett. Imperdibile. Lo studioso di delitti viene avvicinato da una signora fatale raffigurata in un quadro. Ne rimane affascinato, la protegge, la salva, viene pedinato, sta per essere sopraffatto. Proibito scrivere il finale: solo Lang con la sua maestria poteva proporlo magistralmente.

"L'infernale Quinlan", di Orson Welles - 1958 - con Orson Welles, Marlene Dietrich e Charlton Heston. Dimostrazione di quanto la presenza di Welles dietro la macchina da presa e sul set polverizzi tutti. Il burbero militare, coi suoi metodi bruschi, morendo, umilia il poliziotto dalle buone maniere. Gli resiste solo la grande Marlene, anch'essa ai margini della società. Da incorniciare.

"La fiamma del peccato", di Billy Wilder - 1944 - con Barbara Stanwyck, Fred MacMurray e Edward G. Robinson. Il gaglioffo impiegatuccio perde la testa per la provocante fanciulla che vuole eliminare il marito. Sarà un suo onesto compagno di lavoro ad incastrarlo. La Stanwyck dimostra essere davvero una "donna fatale", non certo molte simil-dive da quattro soldi di oggi.

"Rebecca, la prima moglie", di Alfred Hitchcock - 1940 - con Laurence Olivier e Joan Fontaine. La ex moglie, dopo tanti anni, arriva cadavere spinta dalle onde in riva. Tutto precipita, la nuova sposa perde il senno. Attenzione: guai tenere troppo tempo governanti assetate da odi e vendette. Hitchcock sembra godere per questi lugubri incastri.

"M, il mostro di Dusseldorf", di Fritz Lang - 1931 - con Peter Lorre. Questa pellicola è analizzata nelle Università straniere. Più che Lorre adescatore e assassino di bambine, si discute di un principio: può la malavita organizzata sostituirsi alle forze dell'ordine ed alla magistratura per processare un assassino? Il film ha fatto epoca.

"Il mistero del falco", di John Huston - 1941 - con Humphrey Bogart, Peter Lorre e Mary Astor . L'integerrimo e carismatico Bogart viene imbrogliato per ottenere un'ingente somma di danaro dalla leggiadra e bellissima Astor. I due forse si innamorano, vengono analizzati magistralmente da Huston con luci e inquadrature sovrapponibili. Una delle leggende del noir.

Mario Sconamila
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