Prigione. Carcere. Galera. Avanzi di galera. Gattabuia. Gabbio. Stare dietro le sbarre. Carcerieri e carcerati: storicamente è stata talvolta sottile la differenza. L'evasione dalla prigione: la letteratura cinematografica ha analizzato il sogno proibito di ogni prigioniero, con sfaccettature illimitate posizionate in ogni angolo della cella.

E' consolante come definizione, ma quasi impossibile tranne rarissime eccezioni, nonché probabilmente emblematico, affermare quanto il periodo di detenzione possa tendere alla riabilitazione del carcerato: si presuppone una società che possegga ideali, disponibilità economiche e morali idonee alla realizzazione, ma soprattutto un'opinione pubblica largamente maggioritaria avente una forza propulsiva tale, da far collocare questa prerogativa ai vertici di un proprio statuto. Di certo, il sistema carcerario di uno Stato rappresenta lo specchio fedele della mentalità dei suoi componenti.

Un altro aspetto è da analizzare: le conseguenze dello stare dentro una cella non le subisce solo il "colpevole" di turno, ma anche la cerchia familiare da cui è circondato; càpita non di rado che "chi sta fuori", si pensi al coniuge ed alla prole, subisca maggiori conseguenze, anche irrimediabili.

Non sempre è l'angusta cella il simbolo primo della reclusione: assai spesso, specie nei periodi di belligeranza, appare il "campo di concentramento", emblema della detenzione di massa. Ampio spazio delimitato da recinti strettamente sorvegliati; in apparenza più facilità di movimento, spesso spietata repressione verso ogni esigenza di maggiore libertà.

Si arriva ad un'altra fondamentale evidenza: i rapporti fra carcerati.

In generale non semplici, intrisi di rivalità favorite dalle personali frustrazioni, rassegnati ad una ripetitività delle azioni giornaliere alienante e senza speranza, con vari capetti che calamitano con intimidazioni la formazione di propri aderenti; gruppi separati l'un l'altro, per di più con forte incapacità reciproca di aggregazione.

Esiste inoltre un'altra prigione, non meno pericolosa e drammatica per l'individuo, anche se apparentemente priva di sbarre che impediscano l'uscita all'aria aperta in un qualsiasi momento e circostanza. Qualcuno la definisce l'incapacità o l'arrendevolezza del singolo nel voler affrontare la vita, con tutti i corollari che ruotano attorno al problematico trascorrere del tempo. Si delinea la contemporaneità dei termini carceriere-carcerato, laddove il soggetto rinuncia ad andare avanti, si blocca, fino ad avvertire l'estrema difficoltà esistenziale del voler proseguire. In specie l'Occidente è minacciato da tale male oscuro.

La Settima Arte ha prodotto un'abbondanza tale di pellicole inerenti tutti i suindicati settori, da rendere problematica una scelta semplicistica. Lo scrivente, assumendosi questo impegno, desidera evidenziare due aspetti preponderanti:

1) Privilegio dell'aspetto umano e sociale insito nell'intimità dei protagonisti. Quindi, anche se a malincuore, nessuno spazio per film famosi e amati dal pubblico comprensivi di spettacolarizzazioni o esagerazioni a puro scopo commerciale ("Fuga di mezzanotte", "Le ali della libertà", "L'uomo di Alcatraz", "Il prigioniero dell'isola degli squali", "Papillon", "Siamo tutti assassini", "La grande fuga"...). Si proporranno pellicole anche pochissimo conosciute, ma che riflettono lo spirito delle connotazioni che si intendono sviluppare. Verranno elencati, comprensivi di personali voti, seguendo l'ordine alfabetico, eccetto il primo, dal sottoscritto considerato il migliore in assoluto.

2) Si invitano gli appassionati a diffidare della visione di pellicole in circolazione che, per esigenze commerciali, vengono presentate accorciate, prive di sequenze chiave, con immagini rallentate o accelerate, non chiare, audio difettoso e schermo non completo, mancante spesso della parte finale. Un'offesa solenne all'immortalità del Cinema.

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UN CONDANNATO A MORTE E' FUGGITO, di Robert Bresson - 1956 - con François Leterrier e Charles Le Clainche. Cosa determina l'unicità e l'insuperabilità di questa pellicola? Una vicenda realmente accaduta a Lione durante l'occupazione nazista, la regia di Bresson (segno distintivo della supremazia mondiale della cinematografia francese) che ebbe l'intuito di ingaggiare lo sconosciuto Leterrier e creare all'interno del carcere un'atmosfera irreale che mai nessuno avrebbe potuto realizzare e uguagliare. La telecamera piazzata all'interno della claustrofobica cella risulta implacabile nel compiere miracoli di descrizione delle fasi lente, inespressive e monotone a prima vista, ma fondamentali nell'insieme, dove anche un microscopico truciolo di segatura di legno svolge un ruolo decisivo. Movimenti dei carcerati uguali giorno dopo giorno, una sedentarietà che diventa magnificenza, le solite facce, una semplice occhiata reciproca che vale mille parole inutili, l'avvicendarsi al rubinetto per lavarsi ed al contempo far fuoriuscire dalla bocca poche sillabe, interrotte da un perentorio e secco "silenzio!" da parte dei carcerieri. Comunicazioni esterne fra celle adiacenti confortate da poche parole di un confuso, impercettibile e labile vociare amichevole di conforto. Il martellante, spasmodico, indugiare sui listelli di legno che si schiodano. Il tutto, con l'audacia miracolosa del divino Mozart ad accompagnare le fasi. Alla fine tutto è pronto, ma arriva la sorpresa: nella stessa cella è immesso un altro carcerato, un ragazzo confuso e inespressivo. Chi è? Il destino a volte è favorevole: anche il giovane ospite risulterà decisivo.

Nemmeno gli americani, in genere riottosi verso gli inventori del Cinema, poterono esimersi e parteciparono al trionfo della pellicola. Voto: 10 e lode.

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IL BUCO, di Jacques Becker - 1960 - con Mark Michel, Philippe Leroy, Michel Constantin, Raymond Meunier, Jean Keraudy. L'ultimo grande capolavoro di Becker, impegnativo e spossante nella realizzazione.

Decedette a riprese ultimate. Una di quelle pellicole che costituirono per la generazione del sottoscritto una via obbligatoria per penetrare nel mondo della riflessione e della critica, intrisa di conflitti intestini. Impressionante, nella perfezione, la scelta strepitosa e oculata degli interpreti allora sconosciuti. La motivazione principale, consistente nella lunga preparazione dell'evasione dal carcere, finisce per costituire solo un pretesto. Quella da Becker evidenziata appare l'acuta osservazione che cinque individui, impegnati in un'impresa probabilmente troppo al di sopra del manierismo abituale, siano troppi per costituire un amalgama interpersonale che possa reggere fino alla fine, e nessun cedimento psicologico debba avvenire per la riuscita.

Quasi scontato, guai non fosse così, quanto tutto non possa procedere secondo i piani prestabiliti. Ma a Becker interessano anche e sopratutto i contorni, la funzione della prigione come istituzione, la vita interna, grida e frastuoni assordanti, la vita e i gesti degli internati che sembrano dirigersi nel punto morto dei muri di cinta invalicabili, metafora dell'irraggiungibilità totale di un qualsivoglia proposito. Il fallimento dell'evasione è la logica conseguenza. Voto: 9+

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CARCERE, di George W. Hill - 1930 - con Chester Morris, Wallace Beery, Robert Montgomery e Leila Hyams. Affermando quanto la Storia Contemporanea sia allineata alla Storia del Cinema, gli esempi si susseguono e questo segue l'assioma. Nel 1929 l'America cade in preda alla Grande Depressione, trasferendo la spaventosa crisi economica nei comportamenti delle popolazioni, compresa la vertiginosa crescita della criminalità organizzata, cui diede notevole impulso la mafia nostrana. Il sonoro era da poco entrato nelle pellicole, e "Carcere" è l'orrendo esempio che dentro le mura della galera i nervi sono scossi in modo spropositato. Mai viste tante brutte facce e aggressività conseguente. Il film è una perfetta geometria: riprese in soggettiva con millimetrici sfondi che paiono disegnati oggi dal computer; scale a chiocciola anguste; trasferimenti dei prigionieri nel grande piazzale che tanto assomigliano alle genti del sottosuolo inventati da Fritz Lang in "Metropolis". In questo contesto, si esamina la cella di tre di essi, i protagonisti. Uno si innamora della sorella del timido compagno appena arrivato, intravista in foto: è certo che la sua vita sta cambiando, dopo la visione; riesce ad evadere e conosce, ricambiato, la ragazza; viene ripreso e torna in cella. Il carcere è diventato una polveriera, la sommossa è generale, il fuoco delle armi domina la scena.

Intervengono i cingolati dell'esercito con relativi cannoni per porre fine al massacro. Sarà proprio lui, Chester Morris, a salvare tutti i dipendenti del carcere, direttore compreso. Il riabbracciare l'amata ragazza è l'unica luce della pellicola dominata dal buio della violenza. Voto: 8

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CODICE PENALE, di Howard Hawks - 1931 - con Walter Huston, Phillips Holmes - Boris Karloff e Constance Cummings. Ogni regola, anche relegata in tempi lontani, ha la sua brava eccezione: perché non sottolinearla?

Il solito eccezionale Hawks dirige Walter Huston (padre del futuro regista John): attualmente direttore del carcere, in precedenza giudice, ha fatto condannare Holmes; adesso se lo ritrova detenuto con problemi psicologici senza soluzione. Impietosito, fidandosi di lui, lo assume come tuttofare; sua figlia non è insensibile alla voglia d'innocenza del giovane, nasce l'idillio. Ma nelle celle nulla segue le regole ed il nostro cattivissimo (ma per me sempre simpaticissimo) Boris Karloff lo minaccia, ritenendosi tradito. Varie peripezie ed alla fine l'amore trionfa. La brava figlia non sa come ringraziare il padre, che le risponde con una propria massima della vita: "Così vanno le cose, a volte. Bisogna prenderle nella misura giusta, come càpitano". Perfetta direzione del magnifico cast.

Voto: 8

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FORZA BRUTA, di Jules Dassin - 1947 - con Burt Lancaster e Hume Cronyn. La postazione da osservare è la stessa: la prigione, con carcerieri e carcerati che potrebbero scambiarsi i ruoli, in fatto di trasgressioni e incitazioni a violenze e vendette. La sceneggiatura è talmente ben articolata, da mettere allo stesso piano esistenziale sia il brutale caporione delle guardie, che il principale protagonista dell'evasione di massa. Poco o nulla importa che nell'inconscio si parteggi apertamente per Lancaster, ridotto allo stremo dai soprusi dell'aguzzino. Dassin analizza Lancaster alla perfezione: la prigione dove adesso si trova corrisponde alla prigione conseguente a tutti i fallimenti umani e comportamentali che la vita pregressa gli ha riservato. Ogni suo tentativo di riabilitazione è risultato tardivo, ha sbattuto contro "muri umani" paragonabili a quelli dell'attuale galera. Un predestinato: potremmo dire che raccoglie quanto ha seminato. Non meglio di lui, peraltro, si trova il carnefice comandante: anch'egli interpretante la vita solo come sete del dominio. Inevitabile il finale col massacro totale, a cominciare dai due protagonisti. Voto: 9

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LA FUGA, di Delmer Daves - 1947 - con Humphrey Bogart, Lauren Bacall e Agnes Moorehead. Evade rocambolescamente dalla prigione, chiede un breve passaggio a un individuo ambiguo, riceve un aiuto da una sconosciuta in auto, il suo migliore amico cui chiede e riceve aiuto viene ucciso. Chi è, quali sono le sue generalità? Cosa si conosce di lui? Nulla, se non la voce. Per due terzi del film, Bogart è un fantasma, solo la flebile voce, nell'attesa dsottoporsi adun'operazione presso un anonimo chirurgo che gli cambi i connotati del viso. Siamo ai limiti dell'impossibile, ma Daves e Bogart posseggono un tale carisma da affrontare l'assurda impresa con una precisione e chiarezza che solo le "vere star" (non certo quelle di oggi) risolvono con un mestiere inarrivabile. I nodi iniziali cadono come birilli, la ricerca della verità assume i contorni della soluzione di un rebus a incastro.

Un'amica della sconosciuta iniziale risulta essere l'enigma negativo e beffardo che si conclude col salto auto-accusatorio nel vuoto senza speranza. L'innocente ex fantasma deve cambiare aria all'estero, in seguito la sua bella lo raggiunge. Mai come questa, la fuga da una prigione accovacciato dentro una botte, aveva validi presupposti. Voto: 10

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FURIA, di Fritz Lang - 1936 - con Spencer Tracy e Sylvia Sidney. Lang, scappato dal nazismo, arriva in America. La sua fama oltreoceano è immensa. Lui sceglie i soggetti, dopo aver constatato la mentalità retrograda degli Stati centrali. (Non per niente vent'anni dopo, la scrittrice Grace Metalious col suo romanzo che stupì il mondo, "I peccati di Peyton Place", avente una celeberrima trasposizione cinematografica, ritornò sul tema del pettegolezzo gratuito e irritante in voga in quei luoghi). Lang e i due interpreti Tracy e Sidney sono in stato di grazia espressiva: i due fidanzatini, mano nella mano, osservano le vetrine con la camera da letto; trovata una buona retribuzione lavorativa, potranno accasarsi. Si dividono: lui coi suoi due fratelli mettono su una pompa di benzina; lei presso un ufficio in altra città. Finalmente dopo mesi va a trovarla con l'auto, viene fermato ed inizia il suo dramma: accusato di aver contribuito alla sparizione di una infante. Lang offre a noi spettatori la chiarezza degli eventi senza commenti: d'altronde lui è un genio. La "gggggente", come si dice oggi, ha già condannato senza processo il presunto colpevole. Nulla possono le forze dell'ordine, la prigione è presa d'assalto e incendiata; l'esercito non interviene perché il potente politico non può andare contro l'opinione pubblica. Lang si incattivisce nella spietata analisi: Tracy è scomparso, risulta morto, e tramite i due fratelli medita vendetta. Fa processare e condannare a morte per omicidio 22 dei loschi figuri che hanno incendiato la prigione. Ma il regista ha raggiunto lo scopo prefisso: alla fine lo fa riapparire per dimostrare all'inetta cittadinanza il significato della parola "giustizia". Voto: 10

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GRANDI SPERANZE, di David Lean - 1946 - con John Mills, Finlay Currie, Valerie Hobson, Martita Hunt, Alec Guinnes. Lean ha al suo attivo memorabili pellicole di lunga durata, entrate nell'immaginario fantastico degli amanti del cinema. Per lo scrivente "Grandi speranze" è la più incisiva. Si dirà: qui non ci sono prigioni, carcerieri e carcerati, ma un oscuro benefattore che da un lontanissimo continente aiuta, come scrisse Charles Dickens, un bambino gradatamente diventato adulto, ad iscriversi nella scuola più difficile ed irta di pericoli: la vita. La descrizione graduale che sfoggia Lean è di una tale grazia e intensità, da mettere in palese difficoltà anche il più assorto degli spettatori, in plateale stato di inferiorità. Nessuno sa quasi fino alla fine che in realtà il famoso "ragazzino" si innamorerà della figlia del benefattore; tanto meno si presuppone che la famigerata "prigione" esista davvero, addirittura peggiore di quelle comunemente conosciute.

Appare la prigione-chiusura dell'anima, il rinunciare a tutto, vivere nel buio di una grande stanza, con tende pesantissime colme di polvere e sopratutto la costrizione congenita di dover stare in quella posizione fino al termine dell'esistenza. Ed allora il "ragazzino" diventato uomo libererà la donna, figlia del benefattore, dal dramma umano che l'attende. Vengono tolte tende, polvere, muffa, nebbia della mente: la prigione dell'anima è scomparsa. Le finestre si aprono, entra la luce, e i due scappano verso il futuro migliore. Voto: 10 e lode.

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THE HOLE - IL BUCO, di Tsai Ming-liang - 1998 - con Li Kang-Sheng e Yang Kue-mei. Curiosità prima: il Cinema asiatico avanza a grandi falcate; poco importa, per il momento, come noi occidentali lo giudichiamo.

Ming-liang, osservando nel complesso la sua decina di pellicole, segue una costante che evidentemente sente nel proprio processo comunicativo: la pioggia incessante presente in quasi tutte le sue opere. Vive a Taipei e The Hole potrebbe essere considerata la risultante iniziale di un certo suo pessimismo di fondo. La capitale di Taiwan è letteralmente sommersa da una fitta serie di ininterrotti piovaschi, un misterioso virus pandemico è in circolo. Le autorità ordinano lo sgombero di alcuni quartieri e tolgono i servizi essenziali. Ma due, un lui e una lei, resistono, non hanno alternative. La prigione dove si rinchiudono ha un qualcosa che li fa comunicare: un buco nel pavimento di lui che gli permette, volendo, di osservare i movimenti della lei che sta in basso.

Ma si ignorano. Le prigioni, anche quelle allegoriche, non permettono sguardi indiscreti. Gli appartamenti sono inagibili, l'acqua rende instabili le pareti divisorie. La lei, sfinita, incapace di invocare aiuto, desiderosa di accettare la sorte estrema nella sua prigione, cede. Ma il buco comunicante le due prigioni diventa la simbologia dell'aiuto, e permetterà che un braccio istintivamente calato raggiunga l'altro nell'attimo fatale della resa totale. Mai ballo metafisico finale, con sullo sfondo la pioggia che continua a battere, è stato cosi solenne. Voto: 8

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IO SONO UN EVASO, di Mervyn LeRoy - 1932 - con Paul Muni e Helen Vinson. Uno di quegli immortali film che i nostri padri e nonni ci hanno tramandati come "indispensabili" alla cultura cinematografica dell'individuo che voglia scandagliare appieno l'America degli anni Trenta. Una pellicola "maledetta" all'epoca e che ancora oggi, rivisto, fa intendere quanto la Grande Depressione in atto negli USA facesse prostrare quella società in preda alla disperazione più profonda. Molti cineasti statunitensi rifiutarono di dirigerlo, per fortuna LeRoy accolse l'invito. Senza il carisma di Paul Muni, però, il film non sarebbe mai appartenuto al "mito". La trama è semplice: viene messo nella galera, senza prove, solo perché sospettato di un delitto immaginario. Riesce a scappare, a diventare un "evaso", a vivere di espedienti, a rubare, e sopratutto senza alcuna speranza di un domani migliore. Le autorità giudiziarie hanno mentito offrendogli false promesse. Ci si trova davanti ad un caso di prostrazione esistenziale assoluta che uno scritto non può trasmettere. Solo il vedere la pellicola, l'atmosfera buia e la tetra miseria morale emanata, aiuta a comprendere. Estremo caso di autodistruzione dipendente dal "sistema". Voto: 10 e lode

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IL LADRO, di Alfred Hitchcock - 1956 - con Henry Fonda e Vera Miles. Hitchcock appare all'inizio e non è di buon umore, affermando che si tratta di una storia realmente accaduta. Fonda e la Miles, marito e moglie, sono in strepitosa vena recitativa. Lui, tranquillo e bonaccione musicista viene accusato ingiustamente e messo in guardina: non possiede un carattere forte e reagisce come un automa, impossibilitato a percepire quanto stia succedendo. Lei è magistrale nel rappresentare il decadimento fisico e psicologico che questo assurdo dramma sta provocando all'interno della propria mente. Fra i due, a soffrire maggiormente è lei, pur in libertà. Il reo, per fortuna, incerti del mestiere, scivola su una buccia di banana, come suol dirsi, e finalmente finisce in gattabuia. Hitchcock, con apparente leggerezza ma una potenza d'urto non indifferente, è insostituibile nell'offrire allo spettatore le conseguenze di tale "misfatto sociale": lui diventerà sempre più apatico e indifferente, lei in pratica non si riprenderà più. Pessimismo latente, a detta del mago del brivido. Voto: 8½

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LA NAVE DELLE DONNE MALEDETTE, di Raffaello Matarazzo - 1953 - con May Britt, Kerima, Tania Weber, Ettore Manni. Questo rarissimo film affascina per svariati motivi: fu falcidiato dalla censura del tempo (la Chiesa di Eugenio Pacelli non apriva ad alcuna concessione); diretta da un Matarazzo abituato solo a dirigere film strappalacrime; trama ai limiti della credibilità; finto perbenismo conclusivo che fa acqua da tutte le parti. Eppure è rilevante e quasi incredibile si tratti di un film italiano girato in periodi di peccato mortale della carne. La prigione in questione, le stive di una nave, ospita tutte le "donne maledette" destinate ad espiare le loro pene in altro continente. Ma una di loro è innocente, essendosi auto-incriminata di una fatto gravissimo non commesso per salvare una sua cugina, anch'essa presente a bordo col rude avvocato imbarcatosi, diremmo oggi, clandestinamente. L'equivoco viene chiarito, e sia lui che l'innocente lei, si salveranno. Ma è il contorno ad essere grottesco: le donne offrono le proprie grazie alla ciurma ed insieme si ribellano, producendo l'incendio del bastimento.

Muoiono quasi tutte, come detto, e la dipartita fu vista dalla critica ufficiale bigotta come giusta punizione per l'immoralità (alias "impudicizia") della loro scellerata esistenza. Voto: 7 (per l'originalità del tema trattato, visti i tempi).

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VINCITORI E VINTI, di Stanley Kramer - 1961 - con Spencer Tracy, Maximilian Schell, Burt Lancaster, Marlene Dietrich, Montgomery Clift, Richard Widmark, Judy Garland. Il processo di Norimberga principale, con lo stuolo degli altissimi gerarchi nazisti, è già stato celebrato. Il film in questione ne esamina uno successivo, molto intrigante, perché nella prigione, sul banco degli imputati, siedono quattro giudici nazisti che in anticipo sui tempi promulgarono leggi che prevedevano torture, brutalità, fino ad arrivare alla sterilizzazione dell'individuo. Giudici del Tribunale americani, quindi, chiamati ad emettere una sentenza contro giudici nazisti. Da un punto di vista didattico, film indimenticabile. Nella versione restaurata di oltre tre ore, sono anche stati immessi canti tradizionali del nazionalsocialismo, per meglio inquadrare il nefasto periodo. Mai una pellicola ha raggruppato un cast del genere, con interpreti uno più bravo dell'altro.

Mi si permetta un solo esempio: Montgomery Clift, nel suo intervento di 17 minuti, offre una prestazione allucinata, agghiacciante e corrosiva, che rimarrà per sempre negli annali del cinema. Film come questi, oggi, sarebbero impensabili, e non solo per la mancanza di attori adatti che entrino fino allo spasimo nella parte da recitare in modo così autoritario e magistrale. Una delle carenze della cinematografia del momento, paradossalmente parlando, è proprio l'affievolirsi di richieste da parte dell'utenza. Il Cinema guarda adesso in altre direzioni, e pazienza se gli studenti odierni abbiano della Storia contemporanea una conoscenza limitata, se non deficitaria. Una proposta potrebbe essere inoltrata, per il sottoscritto: obbligo di proiettare "Vincitori e vinti" nell'ultima classe di tutte le scuole medie superiori. Per non dimenticare, oltretutto, quanto la nostra Europa abbia nel Novecento dovuto affrontare due conflitti mondiali che i nostri genitori e nonni hanno dovuto sobbarcarsi, con privazioni, sofferenze e rinunce al cui cospetto quelle di oggi appaiono irrisorie. Voto: 10

Mario Sconamila

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(a cura di Mario Sconamila)
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