Sta transitando seguendo educative modalità? Dove si dirige oggi il Cinema? Tramite quale istintiva reazione il pubblico, entrato da due decenni nel terzo Millennio, esplicita il proprio soggettivo giudizio di fronte a quest'onda anomala che rischia di travolgerlo con una serie impressionante di pellicole che non lasceranno tracce dopo il primo apparire, finendo inevitabilmente nell'oblio?

Gli effetti speciali, i prodigi dell'elettronica, il perfezionamento del digitale, stanno rendendo la settima arte schiava della robotica a scapito di quello che era una volta predominio assoluto dell'interprete in scena? Duole dirlo: la via maestra, assai spesso, segue la suindicata domanda.

Ma soprattutto, come avviene per la Storia dei giorni attuali che necessita della conoscenza di quella pregressa, quanti, nel giudicare la filmografia presente possiedono concrete basi per confrontarla con quella passata?

Poco ci viene offerto adesso di veramente innovativo: carenza dell'individuo sul palcoscenico ancora centro propulsore della pellicola, poche scenografie che esaltino i miracoli della cinepresa in mano ai cineasti.

Mancanza di idee, di situazioni e frangenti senza speranza, visionarietà, affrontare nuovi orizzonti, immergersi in campi mai prima esaminati: tutti tali presupposti diventano chimere...

Ma è (dovrebbe essere) anche questa la prerogativa della Settima Arte, non certo sangue gratuito, inseguimenti sfrenati, riprese esasperate dalla velocità, sesso dirompente privo di vincoli didattici, quindi senza significato.

Peggio ancora, a ritmo intermittente, dominano i sequel ed i remake, inevitabile conseguenza del classico detto: non avere idee originali e riproporre fino alla noia un’opera già conosciuta ed entrata nella Storia.

Due esempi sono esplicativi: un anno fa è apparso sugli schermi "Il ritorno di Mary Poppins", sequel dello storico "Mary Poppins" che più di mezzo secolo fa, complice Julie Andrews in stato di grazia, elettrizzò il mondo intero con l'esemplare simbiosi fra animazione e persona reale, dinamismo degli interpreti, fulgida e veritiera ingenuità dei due fanciulli, suffragette (con effervescente e coinvolgente metafora) reclamanti ineccepibili diritti per le donne, la coltre di irreale magicità che circondava "l'angelica piovuta dal cielo con l’ombrello".

Si sapeva che riproporre un'altra simil-Andrews avrebbe provocato conseguenze devastanti: eppure tale mediocre rifacimento è stato giudicato passabile, segno evidente di quanto il "convento cinematografico" attuale non possa che partorire un "nulla" gradito all'utenza, mancante di memoria pregressa.

Ancora più eclatante è forse l'attuale ennesimo, stancante, inutile rifacimento di "Little Women" ("Piccole Donne"), incentrato sulle quattro sorelle Meg, Jo, Beth e Amy, porzione del celeberrimo romanzo di Louisa May Alcott.

Anch'esso è accolto con positività, si prospettano premi, si celebra l'eccentricità della regista Greta Gerwig, ma sarebbe opportuna una domanda: chi stila questi giudizi avventati, colpito da un timido raggio di sole apparso dopo giornate di nebbia perenne, ha fatto dei parametri conoscitivi con tutte le precedenti versioni, compresi spezzoni importanti delle prime due edizioni "mute", di questo classico della Letteratura? Sorgono dubbi notevoli, al proposito.

Tema fondante del romanzo è l'ambiente ottocentesco che anche in America era presente: quello della Regina Vittoria, con l'austerità dei costumi, le giovani fanciulle dipendenti dalla rigida autorità genitoriale, i rapporti con l'altro sesso regolati dalle decisioni del parentado.

Solo due edizioni, dirette da George Cukor in primis ed a seguire da Mervyn LeRoy, seguirono in pieno lo spirito e l'atmosfera sociale del romanzo; in particolare la disamina di Jo, una delle sorelle, verso la quale May Alcott rifletteva la propria immagine. E la più grande "Jo" di tutte le edizioni è stata la Katharine Hepburn di Cukor, ed a ruota la June Allyson di LeRoy, al cui confronto tutte le interpreti delle successive edizioni entrano in profonda sofferenza, quasi fuori parte.

Nel presente lavoro della Gerwig, nulla è presente di tali essenziali componenti il romanzo originale.

Di certo, e rappresenta un'ideale prerogativa rigorosamente soggettiva che ha il privilegio di potersi differenziare da individuo ad individuo a seconda delle preferenze personali, dando uno sguardo all'intera Storia del Cinema, si possono stilare classifiche riguardanti i protagonisti sulle scene e dietro la cinepresa.

Per lo scrivente sono i seguenti:

MIGLIORI ATTORI

Humphrey Bogart

James Stewart e Cary Grant (a pari merito)

MIGLIORI ATTRICI

Bette Davis

Marlene Dietrich e Katharine Hepburn (a pari merito)

MIGLIORE REGISTA

Stanley Kubrick e Charlie Chaplin (a pari merito con leggera preferenza per il primo)

Fritz Lang - Alfred Hitchcock – Ernst Lubitsch (preferenza per il

primo)

I DIECI MIGLIORI FILM DI SEMPRE

"2001: Odissea nello spazio" - 1968 - di Stanley Kubrick

"Tempi moderni" - 1936 - di Charlie Chaplin

"Les Enfants du paradis" (in italiano "Amanti perduti", rigorosamente la versione integrale di tre ore) - 1945 - di Marcel Carné

"Metropolis" (rigorosamente la versione integrale) - 1927 - di Fritz Lang

"Sunrise - A Song of Two Humans" (in italiano "Aurora") - 1927 - di F.W. Murnau

"Ordet" - 1954 - di C.T. Dreyer

"Sussurri e grida" - 1972 - di Ingmar Bergman

"Ladri di biciclette" - 1948 - di Vittorio De Sica

"La grande illusione" - 1937 - di Jean Renoir 10)

"Casablanca" – 1941 – di Michael Curtiz

***

Come detto, nel campo del Cinema ogni valutazione risulta soggettiva: inevitabile quanto il lettore possa avere idee difformi dal sottoscritto. In particolare: divi intoccabili considerati oggi delle celebrità a livello mondiale, come ad esempio gli eternamente impomatati e reduci dal chirurgo plastico Leonardo DiCaprio, Johnny Depp, Angelina Jolie, Brad Pitt, Scarlett Johansson... scompaiono letteralmente di fronte al carisma dei vari Humphrey Bogart, Marlene Dietrich e Bette Davis, che facevano del presentarsi anche trasandati il proprio punto di forza.

Normalmente si tende a considerare quello "made in USA", quanto di meglio circoli nella cinematografia mondiale. Niente di più errato. Gli americani sono presuntuosi da questo punto di vista: di certo, loro hanno messo da sempre i capitali, l'organizzazione degli Impianti, i nomi di storici Produttori (si pensi per fare un solo esempio a David O. Selznick), ma è bene ricordare che i più grandi cineasti sono stati europei, trapiantati in USA per svariati motivi, fra i quali per sfuggire al nazismo e poter affermare le proprie potenzialità.

Fritz Lang, F.W. Murnau, Ernst Lubitsch erano tedeschi; John Ford irlandese; G.W. Pabst austriaco; Victor Sjöström svedese; Jean Renoir, che vi diresse alcuni suoi film, francese; Alfred Hitchcock, David Lean e Lawrence Olivier, inglesi; Michael Curtiz, ungherese; una lunga serie, a cominciare da Frank Capra, Frank Borzage, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese...di origine italiana. Ed anche fra i più celebrati divi:

Marlene Dietrich, Greta Garbo, Alec Guinness, Peter O'Toole... provenivano dall'Europa.

Mary Pickford, soprannominata "la fidanzata d'America", era canadese ed affermò che decise di emigrare negli States per poter far accettare a quel popolo privo di equità gli ideali del ruolo della "donna".

Un esempio della supponenza USA è l'assegnazione degli Oscar: si pensi che Stanley Kubrick e Charlie Chaplin, gli immortali protagonisti della Settima Arte, non siano mai stati premiati da alcuna statuetta per un loro film o regia! Il motivo era evidente: la società americana ha sempre snobbato i due cineasti, definiti portatori non eccelsi dei valori della democrazia (??). A Chaplin, addirittura, fu preclusa per decenni l'entrata nel suolo americano.

Illuminanti esempi di quanto il Cinema, quello vero, debba lottare per rifulgere.

Mario Sconamila

(docente in pensione)
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