Emily Murphy si è arresa, ma non all'evidenza.

Se la funzionaria della Casa Bianca che bloccava la transizione ha accettato di considerare Joe Biden come "presidente apparentemente eletto" è solo perché gliel'ha ordinato il suo capo, Donald Trump. E quella firma, oltre a consentire al Dem e alla sua squadra di prendere confidenza con i dossier che dal 20 gennaio impegneranno la nuova Amministrazione, chiude i venti giorni in cui una semisconosciuta avvocata di Saint Louis, Missouri, è stata l'incubo di molti e l'eroina dei trumpiani oltranzisti (che non sono necessariamente una minoranza nella più generale categoria dei trumpiani). Ma chi è Emily Murphy, e che cosa (non) ha fatto davvero? Sappiamo che ha 46 anni, ha studiato alla Virginia School of Law, è avvocata come sua madre (il padre guidava un'impresa di progettazione e costruzione), è così fiera di essere una militante repubblicana da segnalarlo sul proprio profilo LinkedIn e dirige la General Services Administration della Casa Bianca dal 12 dicembre del 2017,quando fu nominata da Trump.

Fino all'investitura al vertice della Gsa aveva percorso diligentemente una carriera da alta burocrate nei ranghi federali, ma quanto pare adesso l'avvocata sa che la sua carriera alla Casa Bianca potrebbe non durare a lungo se è vero, come dicono i suoi colleghi, che già alcuni giorni prima di sbloccare la transizione aveva cominciato a cercare lavoro.

Per avere un'idea dell'importanza dell'atto che Murphy per venti giorni ha tenuto in un cassetto, leggiamo come l'Ansa ha salutato la notizia che la firma era effettivamente arrivata: "Ora il presidente eletto potrà avere accesso al briefing quotidiano dell'intelligence e il suo staff potrà iniziare a collaborare con quello di Trump per il passaggio delle consegne, contattare le agenzie governative, creare email ufficiali, usufruire di uffici, sistemi informatici e fondi federali per 6,3 milioni di dollari. La necessità più urgente, secondo il team di Biden, era quella di avere accesso ai dati sul Covid-19 e ai piani di distribuzione del vaccino, in modo da evitare ritardi o ostacoli nella lotta ad una pandemia che negli Usa registra cifre record di morti e di contagiati". Gli esempi dell'importanza di un passaggio ordinato fra i team ("Garantiremo una transizione calma e fluida dall'Amministrazione Trump alla prossima Amministrazione Trump", sghignazzava nei giorni scorsi Mike Pompeo) sono moltissimi, perciò limitiamoci a indicarne due molto significativi, anche lasciando da parte l'emergenza Covid. Primo: per Biden non avere accesso ai rapporti dell'intelligence può avere conseguenze devastanti, e non solo sul piano esterno (da notare che Trump li ebbe da molto prima di diventare "presidente apparentemente eletto": durante la campagna elettorale i briefing degli 007 furono disponibili per entrambi i candidati, lui e Hillary Clinton, in modo che chiunque vincesse avesse confidenza con tutte le informazioni top secret già prima di coabitare da "eletto" con Obama, in carica ancora per qualche settimana). Oltre a non sapere come va la salute di Kim jong-Un oppure se l'Isis si prepara a battere un colpo, teoricamente Biden potrebbe scoprire solo a cose fatte che il segretario di Stato da lui pubblicamente indicato nei giorni scorsi è una spia cinese.

Secondo: nelle sue poche esternazioni- e nelle conversazioni con i suoi predecessori alla guida della General Services Administration - Emily Murphy ha citato come precedente di "voto contestato" la transizione fra Bill Clinton e George W. Bush, bloccata per lunghe settimane da una battaglia legale fra il repubblicano e Al Gore su poche centinaia di voti in alcune contee della Florida, uno scontro protratto fino alla Corte Suprema, che incoronò Bush bloccando il riconteggio. Ma citare il 2000 come precedente non è solo sbagliato: è pericoloso. Il paragone non sta in piedi perché Biden ha vinto con decine di migliaia di voti di scarto negli Stati più contesi, ha avuto più voti di qualunque presidente nella storia americana e i ricorsi intentati da Trump sono stati spazzati via da tutti i giudici che se li sono trovati di fronte (quando non sono stati direttamente ritirati dal comitato elettorale repubblicano prima della sentenza). Ma soprattutto nel 2000 il lungo addio dell'amministrazione uscente alla Casa Bianca non fu privo di conseguenze.

Addirittura Andy Card, che non è un antagonista Antifa ma il vecchio capo di gabinetto di George W. Bush, di recente ha ricordato che secondo la commissione d'inchiesta sull'11 Settembre una transizione più lunga e portata avanti in un clima più collaborativo avrebbe consentito di ridurre i danni inflitti da Al Qaeda agli Stati Uniti se non addirittura di prevenire l'attacco.

Ovviamente l'ostinata inerzia di Murphy non ha lasciato indifferenti gli elettori. Il Washington Post - che ha dipinto i suoi venti giorni in trincea come una "agonia autoinflitta" - ha rivelato che molti americani esasperati l'hanno coperta di sollecitazioni piuttosto brusche, ricordandole che "lavora per il popolo" e arrivando a spedirle una penna con accluse le istruzioni per firmare l'ascertainment, l'atto che consente di trasferire fondi e conoscenze al futuro presidente. Lo sappiamo perché la valanga di mail così come la penna sono arrivate a una avvocata Emily W. Murphy che è collega e omonima della funzionaria federale ma non potrebbe essere più diversa, tanto etnicamente (nel suo caso W. sta per Wang, il cognome cinese di origine) quanto politicamente, visto che è sempre stata anche lei convintissima della necessità di una transizione rapida ed efficiente.

Quei colpi di sprone verbali, quei richiami a brutto muso a "fare il suo lavoro e firmare" alla fine un vantaggio lo hanno comportato, ma non per lei: per Trump. Il presidente uscente, più convinto che mai a non "concedere", ovvero a non riconoscere la vittoria dell'avversario, ha potuto solidarizzare su Twitter con la funzionaria vittima di "insulti, abusi e minacce". Dopodiché l'ha pubblicamente autorizzata a sbloccare la transizione, con un sottotesto piuttosto chiaro: non riconosco Biden come presidente, ma autorizzo Murphy a trattarlo come tale altrimenti la poverina continuerà a beccarsi male parole sui social. La verità è che Trump ha ricevuto pressioni più numerose e importanti di quelle piovute su Murphy. Su 53 senatori repubblicani in carica, 31 hanno detto privatamente a Carl Bernstein - il leggendario cronista che in tandem con Bob Woodward scoperchiò il Watergate - di non condividere per nulla il blocco alla transizione, e altrettanto hanno fatto pubblicamente fior di anchormen della Fox, la tv di Murdoch che è stata trumpiana prima e più di Trump. Ma soprattutto le organizzazioni imprenditoriali Usa hanno bussato con vigore al portone della Casa Bianca, spiegando che i businessmen gradirebbero continuare a fare affari in un'America istituzionalmente solida anche dopo il mezzogiorno del 20 gennaio, quando Biden assumerà il potere.

Il presidente in carica, insomma, aveva i suoi buoni motivi per slegare le mani a Murphy e lasciarla firmare, pur fingendo di farlo solo per non metterla in difficoltà e continuando a rappresentarsi come vittima di un complotto che Rudy Giuliani, il suo avvocato personale, ha cercato di sostenere nelle aule e in conferenza stampa finché i verdetti unanimi dei giudici di ogni orientamento e il residuo senso del ridicolo non lo hanno indotto a fermarsi e a scaricare i suoi collaboratori più fantasiosi, che avevano tirato in ballo la mafia di Philadelphia, la fondazione Clinton e la buonanima di Hugo Chavez per spiegare l'esito delle elezioni.

A quel punto Murphy ha firmato. E non una ma due volte. Dopo l'atto di "ascertainment" ha siglato anche una lettera a Biden, in cui annuncia il via libera alla transizione e spiega che in questi giorni sono arrivate minacce a lei, alla sua famiglia e anche ai suoi animali domestici (sul serio-ndr), ma lei si è basata sulle regole e sui fatti disponibili e - contrariamente a quanto insinuato dai media - non ha subito pressioni politiche né ha inteso favorire nessuno. Nell'ultimo paragrafo spiega che per le attività del team del nuovo presidente sono disponibili 6 milioni e 300mila dollari più un altro fondo da un milione, se servono informazioni chiamate pure la signora Gibert che è la coordinatrice e sa tutto.

Se un appassionato dell'America contemporanea troverà familiari queste parole c'è un motivo: sono la versione burocratica del celebre "Nulla di personale, è stata solo una questione di affari" che Virgil Sollozzo balbetta dopo aver inutilmente cercato di uccidere il Padrino.

Poi come andarono le cose per Sollozzo è noto a tutti gli spettatori. Come andranno a Emily W. Murphy è ancora da capire, ma non ci vorrà moltissimo: basterà vedere se e quale nuovo lavoro troverà. Forse non ci sarà la fila per assumerla, ma se la Fox o la Trump Organization o qualunque altro soggetto turbo-repubblicano di qui al 20 gennaio dovesse offrirle un contratto, farà molto bene a sottoscriverlo al volo. Senza l'ipocrita, dannosa, insopportabile titubanza che ha mostrato al momento di mettere la firma più importante della sua carriera sotto gli occhi imbarazzati dell'America e non solo.
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