Chi vent'anni fa era abbastanza adulto e politicamente coinvolto da seguire le presidenziali americane oggi lo vive come un riflesso automatico: se un'elezione sul filo di lana finisce davanti a una Corte Suprema a maggioranza conservatrice vince il candidato di destra, alla faccia della volontà popolare.

Per questo, quando Trump ha chiesto e ottenuto dalla suprema magistratura americana che i voti postali arrivati in Pennsylvania vengano sì conteggiati ma conservati a parte, in attesa di decidere se invalidarli, molti hanno pensato (e più di una testata ha titolato): ci risiamo, l'America e il mondo sono incappati di nuovo nel celebre "Incubo della Corte Suprema". Tanto più che nel 2000, quando le toghe bloccarono il riconteggio in un pugno di contee della Florida e consegnarono a George W. Bush la vittoria su Al Gore per poco più di trecento voti, la maggioranza conservatrice della Corte (cioè i giudici nominati da presidenti repubblicani rispetto a quelli indicati da presidenti democratici) era di un esile 5 a 4. Mentre oggi, per via di una scelta spregiudicata e contraddittoria che non ha precedenti nella politica Usa e che meriterebbe un approfondimento a parte, nella Corte la destra prevale sulla sinistra per uno schiacciante 6-3.

Ma siamo certi che il vertice del potere giudiziario americano sia pronto a strappare dalle mani di Biden una vittoria non ancora formalizzata ma riconosciuta praticamente da tutti (compresi il trumpianissimo governo di Israele e appunto Bush il giovane, che nel frattempo è diventato Bush e basta e ha diffuso un messaggio in cui si congratula con Biden e invita il presidente in carica a mettersi l'anima in pace)? No, questa certezza non la abbiamo. E per quanto le previsioni sui verdetti della Corte siano destinate ad avere un margine di errore ben più ampio dei sondaggi - che come abbiamo appena visto sono e restano fallibilissimi - c'è una serie di elementi che dovrebbero rendere cauti i sostenitori della imminente riscossa di Trump per le vie legali.

Primo: nel 2000 la vittoria fu attribuita a Bush sostanzialmente perché i riconteggi non avrebbero dato un esito certo entro tempi brevi, e non si poteva lasciare l'America alle prese con un vuoto di certezze e di poteri ancora per giorni o settimane (questo nella sostanza, mentre dal punto di vista giuridico il filo del ragionamento che convinse cinque giudici su nove fu molto più articolato ed è tuttora al centro di dibattiti e analisi critiche). In pratica in caso di vittoria contestata a rischiare la delusione è molto più il perdente che fa ricorso (in questo caso Trump) che il vincitore apparente.

Secondo: come sottolinea il massimo esperto di flussi elettorali Usa, Nate Silver, tradizionalmente i riconteggi spostano al massimo qualche centinaio di voti, mentre nel caso della Pennsylvania parliamo di un vantaggio Dem di migliaia e migliaia.

Terzo: prima che il Senato ratificasse la nomina di Amy Coney Barrett (molto conservatrice su temi come il possesso di armi, l'interruzione di gravidanza, la pena di morte e l'estensione del servizio sanitario pubblico) la Corte era comunque a trazione repubblicana, nel senso che il giudici conservatori prevalevano su quelli progressisti. Eppure le sue decisioni più recenti spesso non sono state quelle che Trump sperava (e Trump al momento di quelle sentenze era un presidente nel pieno dei suoi poteri, non un perdente che fra 80 giorni scarsi dovrà ritirarsi a vita privata). Ad esempio la Corte, che si è appena rifiutata di smantellare l'Obamacare per conto della Casa Bianca, a suo tempo aveva bocciato la stretta di Trump sulla protezione dei "dreamers", gli immigrati entrati negli Usa da minorenni. Non solo, ha riconosciuto che metà dell'Oklahoma appartiene ai nativi americani e quindi va riconosciuta come riserva, aprendo così all'annullamento di moltissime sentenze pronunciate da tribunali statali e non "etnici". Ha deciso a larga maggioranza (7 a 2) che il presidente deve obbedire all'ordine della Procura di New York e consegnare le proprie dichiarazioni dei redditi e qui Trump ha reagito malissimo, dichiarandosi un «perseguitato» (è possibile che al lettore italiano un uomo di governo che lamenta una persecuzione giudiziaria su questioni fiscali suoni familiare, ma questa è un'altra storia).

Venendo alle questioni più attuali - con Trump che chiede di dichiarare "illegali" molti voti arrivati per posta ma senza spiegare bene perché, esattamente come grida ai brogli ma senza documentarli né indicarli specificamente - un precedente c'è ed è recentissimo. Risale al 29 ottobre, quando la Corte ha confermato il verdetto di una corte d'Appello federale, che dava per validi i voti postali che fossero arrivati in North Carolina anche 9 giorni dopo l'Election Day, purché la data del timbro sulla busta non fosse posteriore al 3 novembre. Una decisione definita "folle" da Trump e assunta dalla Corte senza la partecipazione di Barrett, insediata troppo di recente per avere il tempo di leggere le memorie delle parti in causa. Insomma, è difficile che la Corte, che a fine ottobre estendeva i termini per i voti postali in North Carolina, a novembre decida che quelli della Pennsylvania vanno mandati al macero.

Ultima considerazione: se anche decidesse di calpestare la propria tradizionale indipendenza, la Corte non ha politicamente motivo di sostenere Trump oltre l'evidenza della sua sconfitta. Intanto un conto è dire che la massima magistratura è a maggioranza conservatrice, altro è dire che è a maggioranza trumpiana. Il presidente in carica ha nominato tre giudici: prima di Amy Barrett, che ha preso il posto della liberal Ruth Bader Ginsburg, aveva indicato Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch per rimpiazzare due giudici scelti da Reagan, il defunto Antonin Scalia e il dimissionario Anthony Kennedy. Se anche dovessero sostenere la linea eversiva del tycoon e accettare di rimettere in discussione l'esito elettorale, è piuttosto improbabile che gli altri giudici di estrazione conservatrice li seguano: agli occhi dei vecchi dinosauri del partito repubblicano Trump è stato un guastatore irresponsabile e indecente, è probabile che un giudice nominato da Bush si senta lontano dal presidente-costruttore-showman quanto un giudice nominato da Clinton o da Obama.

Ma soprattutto i giudici della Corte suprema sono nominati a vita: in particolare i più giovani fra loro dovrebbero fronteggiare per decenni la responsabilità di aver messo in discussione, ribaltato e in definitiva delegittimato il processo elettorale americano. Non solo: un recupero per via giudiziaria della presidenza Trump terrebbe i democratici lontani dalla Casa Bianca per quattro anni, e forse anche per uno o due altri mandati, ma è fisiologico che prima o poi l'Asinello si alterni al potere con l'Elefante in un sistema sostanzialmente bipartitico. E i Dem hanno pronta l'opzione nucleare per quando saranno di nuovo in sella: una riforma costituzionale per portare da 9 a 12 il numero dei giudici supremi, in modo da annacquare la quota di conservatori e poter nominare altri tre progressisti.

Ma tutti questi piani B e C probabilmente sono solo ipotesi che si dissolveranno di qui a poche settimane, quando l'America avrà anche ufficialmente un nuovo presidente e le priorità saranno la lotta al virus e alla crisi economica. Non le possibili reazioni della Corte alle improbabili accuse di un cattivo perdente.
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