Tutte le volte che abbiamo detto green, senza pensarci su. Diventata la parola divisiva per eccellenza, issata in cima alle convinzioni di ciascuna fazione – avere o non avere il pass che attesta la doppia vaccinazione anti Covid – green-verde è un aggettivo capace di evocare mille e una storia. A cominciare dal capolavoro di Joseph Losey del 1948 “The boy with the green hair” (“Il ragazzo con i capelli verdi”): quell’insolita capigliatura diventa simbolo di pace e di una bella eredità toccata in sorte al piccolo Peter. Orfano di guerra, il ragazzino cresce affidato affidato alle cure del nonno. Una sera, il vecchio gli mostra una pianta sempre verde: come questa pianta, dice il nonno, così anche la speranza è sempre viva e verde nel cuore. La mattina dopo il piccolo Peter si accorge con spavento che i suoi capelli sono divenuti verdi. Deriso dai compagni, scappa ma la polizia lo riporta a casa dove il nonno ha per lui una sorpresa: la lettera che il padre gli aveva lasciato perché la leggesse a 16 anni. Medico in un ospedale di Londra, aveva sfidato i bombardamenti per adempiere la missione di pace. Ora Peter si augura che i capelli gli ricrescano verdi, e che quel colore sia il segno di speranza di un mondo migliore, senza più discriminazione, pregiudizi e intolleranze.

Nulla di più potente dei simboli in un momento in cui è indispensabile sentirsi quello che siamo, comunità, come ci ha rovinosamente ricordato la pandemia. Governata con parole preso in prestito dall’inglese: lockdown prima e ora green pass, appunto. Ma green è ancora tanto altro. E non necessariamente così simbolico come il film di Losey.

La prima voce sul dizionario on line Treccani è questa: green ‹ġrìin› agg. e s. ingl. (propr. «verde»; pl. greens ‹ġrìin∫›), usato in italiano come s(ostantivo) m(aschile). – Nel gioco del golf, piattaforma d’arrivo, ossia il prato ben rasato che circonda ciascuna buca del campo. Per estensione, il green è il campo da golf.

Green entra nel nostro vocabolario a pieno titolo come neologismo, cioè sinonimo di ecologico, rispettoso dell’ambiente, e sono stati i quotidiani a introdurlo.

Ma sapevate che c’è una green room? E’ la sala allestita nei teatri per accogliere artisti e cantanti nell’attesa, o nelle pause, delle loro esibizioni. C’è poi la green tech, la tecnologia pulita, al servizio dell’ecologia (per esempio il motore elettrico rispetto a quello a benzina) e la green economy, la forma economica in cui gli investimenti pubblici e privati mirano a ridurre le emissioni di carbonio e l'inquinamento, aumentando l'efficienza energetica e delle risorse, per scongiurare la perdita di biodiversità e conservare l’ecosistema.

Le guerre degli ultimi anni ci hanno insegnato che si può creare una green-zone, un’area protetta e sorvegliata, una sorta di cuscinetto tra due paesi in conflitto. Più prosaicamente la parola greenback sta a indicare la banconota del dollaro: uno dei due lati è di colore verde, equivalente all’espressione italiana “il biglietto verde”. In campo economico il greenbiz è il <giro d’affari che ruota attorno all’ecologia>. Nessuna rispondenza invece tra il detto “sono al verde”, non ho soldi, mentre l’inglese dice “I’m broke”. Un po’ di autonomia tra le due lingue non disturba.

A dirla tutta verde è anche il colore della gelosia come ci insegna William Shakespeare che fa dire a Iago nell’Otello: “Oh, beware, my lord, of jealousy! It is the green-eyed monster which doth mock. The meat it feeds on”. (Guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre).

Gelosia a parte, la letteratura è disseminata da confortanti esempi di verde. Come le “Verdi colline d’Africa” dello scrittore Ernest Hemingway (Green Hills of Africa, 1935), romanzo autobiografico in cui descrive un safari fatto con la moglie Pauline Pfeiffer nel dicembre del 1933. O “Come era verde la mia valle” (How green was may valley) pellicola del 1941 di John Ford: Galles, le miniere, e tanta solidarietà familiare nell’affettuoso ricordo di Huw Morgan.

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