Trump, il sogno del Nobel per la Pace e il vittimismo numericamente infondato
Perché il presidente sbaglia quando dice che non può vincere «perché non è democratico»Donald Trump, presidente degli Stati Uniti (foto Epa/Shawn Thew/Pool)
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Non è un mistero che Donald Trump si ritenga titolatissimo per il Nobel per la Pace, anche se lui per primo è molto scettico sulle proprie chance. Domenica 23, mentre a Riad il suo inviato Steve Witkoff incontrava la delegazione ucraina e si preparava a vedere di lì a 24 ore quella russa, il presidente è tornato a parlare del premio con una sfumatura di malinconia, spiegando che «Obama l'ha ottenuto senza motivo, non lo sapeva nemmeno lui, non ha fatto niente. Se io fossi un presidente democratico lo vincerei».
I precedenti almeno fino a un certo punto gli danno ragione: su quattro presidenti degli Stati Uniti che si sono aggiudicati il premio, solo uno era repubblicano. E fra l’altro è quello che se lo è aggiudicato più tempo fa: era il 1906 quando Theodore Roosevelt ebbe il riconoscimento per aver mediato la pace fra Russia e Giappone. Tredici anni più tardi il Nobel per la Pace andò per la prima volta a un presidente democratico: Thomas Woodrow Wilson, che ne fu insignito nel 1919 per il suo impegno nei trattati di pace che chiusero la prima Guerra Mondiale. In realtà non la chiusero così efficacemente, visto che il rancore e la frustrazione scatenati in Germania dalle umilianti condizioni imposte a Versailles sono generalmente indicate come il brodo di coltura per la successiva nascita del nazismo. Per trovare il terzo Commander in chief ad aggiudicarsi il premio bisognerà aspettare oltre ottant’anni: era il 2002 quando il democratico Jimmy Carter fu premiato per il suo “straordinario impegno in favore dei diritti umani”. A differenza dei predecessori non era più presidente quando ebbe il riconoscimento, e d’altra parte la sua legacy, la sua eredità politica, alla lunga si rivelò molto più interessante e positiva del disastroso dividendo che incassò a fine mandato, in piena crisi degli ostaggi in Iran. Infine sette anni dopo, nel 2009, fu la volta di un presidente democratico in carica: Barack Obama, che ebbe il Nobel “per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”.
Eppure se allarghiamo la platea dai presidenti alle persone comunque ai vertici dell’amministrazione americana, e quindi includiamo i vicepresidenti e i segretari di Stato, la statistica si fa meno smaccatamente favorevole ai democratici. Nel 1912 il Nobel per la Pace andò a un repubblicano, il segretario di Stato Elihu Root, come riconoscimento per aver lavorato a un forte scambio diplomatico con il Giappone. Anche nel 1925 fu un repubblicano a vincere: Charles Gates Dawes, vice del presidente Calvin Coolidge e firmatario del piano che attraverso ingenti prestiti americani consentì alla Germania di rimettersi in piedi economicamente dopo la Prima Guerra Mondiale e pagare le riparazioni a Francia e Belgio previste dal trattato di Versailles. Poi sarebbe accaduta la tragedia che sappiamo, con gli eserciti di nuovo in lotta in Europa e non solo, ma il piano Dawes oltre che una boccata d’ossigeno ai tedeschi diede un po’ di tempo alla pace. Ed era repubblicano anche Frank Billings Kellogg, che fu segretario di stato con Calvin Coolidge e nel 1929 ebbe il Nobel per il patto che sottoscrisse con il ministro degli esteri francese Aristide Briand, un documento che concorse alla creazione del diritto internazionale umanitario. Democratico era invece Cordel Hull, segretario di stato con Franklin Delano Roosevelt, premiato nel 1945 “in riconoscimento dei suoi sforzi per la pace e la comprensione dell'emisfero occidentale, i suoi accordi commerciali e il suo lavoro per fondare le Nazioni Unite”. Poi c’è George Marshall, che ebbe il riconoscimento nel 1953 in virtù del Piano che porta il suo nome e consentì ai Paesi dell’Europa occidentale di uscire dal baratro economico del dopoguerra. Il suo Nobel potrebbe contare come mezzo punto a favore dei democratici, visto che Marshall politicamente era un indipendente ma servì come segretario di Stato nell’amministrazione del democrat Truman. Vent’anni dopo ecco un repubblicano a prova di bomba come Henry Kissinger, premiato nel 1973, quando era segretario di Stato nell’amministrazione di Richard Nixon, per l'avvio della composizione del conflitto vietnamita. Chiude la lista un democratico, premiato anni dopo la conclusione del suo mandato: Al Gore, vicepresidente quando alla Casa Bianca c’era Bill Clinton, che ebbe il Nobel nel 2007 per i suoi sforzi per “costruire e diffondere una maggiore conoscenza sui cambiamenti climatici causati dall'uomo”.
Nel complesso, perciò, dai primi del Novecento a oggi il Nobel per la Pace è andato a cinque uomini di governo americani di fede democratica e ad altrettanti loro colleghi repubblicani, con l’indipendente Marshall a fare l’ago della bilancia.
Questo per rispondere alle lamentele di Trump sul fatto che meriterebbe in Nobel ma non può averlo perché il premio è un’esclusiva dei democratici. Quanto alla sua altra affermazione, cioè che Obama non lo meritasse, di certo quel riconoscimento ad appena nove mesi dall’ingresso alla Casa Bianca lasciò perplessi molti, scettici all’idea che in così poco tempo il presidente avesse potuto fare qualcosa di significativo per la pace. D’altra parte lui stesso sottolineò di accettarlo «con umiltà», e confidò che nella sua famiglia l’evento non aveva messo in ombra i traguardi degli altri componenti, anche quelli a quattro zampe. Quella mattina la figlioletta Malia lo svegliò annunciandogli: ciao papà, hai vinto il Nobel e oggi è il compleanno di Bo.