L’antieroe che ha sfidato e abbattuto ogni barriera logica, quasi vent’anni di carriera da calciatore professionista e neanche un minuto giocato. Carlos Henrique Raposo, noto Kaiser, è riuscito a inventarsi una storia ai confini della realtà: mai una partita ufficiale ma contratti sempre in tasca con le squadre più prestigiose del campionato brasiliano, come Botafogo, Flamengo, Fluminense, Vasco De Gama. Si è spinto anche in Argentina (Independiente) e in Messico (America). Nel suo curriculum esiste persino una stagione europea, in Corsica, con il cartellino del Gazelec Ajaccio.

Mai in campo

L’incredibile filo conduttore è sempre stato lo stesso: dal 1979 al 2001 Raposo non è mai sceso in campo. Neanche un minuto, neanche una presenza, figuriamoci i gol. La sua storia è lo straordinario intreccio di astuzia, fortuna e faccia tosta che ha generato l’unica carriera fantasma nella storia del calcio. Su Wikipedia uno zero diffuso (tra le presenze nelle varie squadre in cui ha militato) certifica la totale assenza di Raposo dai campi di gioco. Nel 2018 è uscito anche un docufilm biografico “Kaiser: the greatest footballer never to play football”, ribattezzato in italiano in un più aspro “Il più grande truffatore della storia del calcio”.

Una storia di finzioni

Classe 1963, brasiliano di Porto Alegre, una vaga somiglianza con Renato “Gaucho” Portaluppi, stella brasiliana degli anni Ottanta (nonché meteora del calcio italiano), Raposo era per tutti il Kaiser. «Avevo uno stile paragonabile a quello del campione tedesco Beckenbauer», diceva lui. «Il soprannome è legato alla birra Kaiser di cui andava matto», ribattevano i suoi amici più stretti. Sapeva a malapena fare qualche palleggio ma le sue doti erano ben altre: la parlantina sciolta, un carisma innato e la capacità unica di tessere relazioni. La sua carriera si può considerare un capolavoro di inganni e finzioni. Come è stato possibile? All'epoca non esisteva la presa diretta e costante sul mondo del calcio. Poche immagini, una dimensione sfumata, il sistema mediatico meno oppressivo, anche le visite mediche non erano troppo stringenti. Il Kaiser è riuscito sfruttare questi scenari, intrecciando una fitta rete di amicizie con procuratori e calciatori veri.

La carriera in crescendo

Raposo si è aperto le prime porte grazie a una breve parentesi nel calcio giovanile. Poi è stato tutto un lavoro di relazioni e conoscenze, accompagnate da una simpatia spontanea che gli consentivano di farsi accettare in tutti i gruppi. Raposo entrava nelle squadre e si metteva subito da parte con una nonchalance insuperabile. Inventava infortuni che gli assicuravano periodi di riposo prolungati. Insomma, non scendeva mai in campo: eppure, stagione dopo stagione, trovava sempre un nuovo contratto e qualcuno disposto a investire su di lui. La forza del Kaiser era legata alla capacità di coinvolgere sempre più persone nel suo progetto. Compagni di squadra, staff sanitari, procuratori, giornalisti, tifosi: c’era una sorta di accordo non scritto, Raposo doveva sempre trovare una squadra.

La parentesi in Corsica

Quando arrivò in Corsica, nel 1986, le sue certezze per qualche istante vacillarono. Ad Ajaccio ci fu una presentazione da star del «campione» arrivato dal Brasile: «Mi catapultarono in uno stadio pieno di tifosi, come se si dovesse disputare una partita», raccontò poi. «Credevo di dover fare giusto un giro di campo e salutare, ma era pieno di palloni. Tutti si aspettavano qualche palleggio, giocate con i compagni». Dalla paura alla solita intuizione il passo fu brevissimo: «Raccolsi tutti i palloni e li lanciai verso i tifosi, la folla era in estasi. Non c’erano più una sola palla in campo, non correvo più rischi». All’inizio del campionato arrivò la consueta sentenza: infortunio muscolare, zero presenze anche con la squadra di Ajaccio. Seguì qualche polemica sull'oggetto misterioso ripartito dall’Europa senza mai scendere in campo, ma nulla di più. Raposo se ne tornò tranquillamente in Brasile per accasarsi nella Fluminense prima e al Vasco de Gama poi.

Amico di Romario e Bebeto

Aveva stretto amicizie importanti con i campioni dell’epoca: come Romario e Bebeto (campioni del mondo nel ‘94 dopo la finale vinta ai rigori contro l’Italia di Baggio), e poi “O animal” Edmundo. fino al suo quasi sosia Renato Gaucho. Tutti lo coccolavano e proteggevano il suo segreto. Il Kaiser si era guadagnato i gradi di talismano, portafortuna, uno che doveva esserci per forza. E le poche volte in cui qualche allenatore provava a mandarlo in campo, lui con la solita noncuranza simulava stiramenti improvvisi, malesseri vari, guadagnandosi un'altra visita medica e l’immancabile nuovo periodo lontano dal campo. «Io volevo essere un calciatore per vivere come un calciatore, non per giocare a calcio», raccontò poi con una flemma che dimostrava una volta di più quanto avesse le idee chiare. Sognava «fama, soldi, donne, viaggi» come «i veri campioni del pallone». Ci riuscì, come seppe uscire di scena senza troppi clamori. Non ci fu mai uno scandalo: Raposo negli ultimi anni giocò – si fa per dire – anche nei Patriots di El Paso, in Texas, prima di tornare a casa (nel Bangu) e per poi passare all’America di Città del Messico. Concluse la sua incredibile carriera a quasi 38 anni con la maglia brasiliana del Guarany de Camaquã. Ovviamente senza scendere in campo un solo minuto. 

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