Brian Wilson, il genio che fece del pop un’arte sopraffina
Così, rinunciando a suonare dal vivo, a 24 anni creò il capolavoro Pet SoundsBrian Wilson nel 2012
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Chitarre elettriche e acustiche a 6 e 12 corde, basso elettrico e acustico, contrabbasso, ukulele, mandolino, banjo, arpa, pianoforte acustico ed elettrico, pianoforte modificato, organo Hammond B3, clavicembalo, celesta, theremin, violini, viole e violoncelli, flauti (soprano, contralto e basso), clarinetti, oboe, fagotto, sassofono (tenore e baritono), tromba, corno francese, trombone, armonica a bocca (basso), batteria, tamburello, campanelli, marimba, vibrafono, glockenspiel, bongo e conga e temple blocks, castagnette, crotali, lattine di Coca-Cola suonate con bacchette, latrati di cani, il passaggio di un treno, corni da nebbia. Mai nessuno aveva osato far convivere tanti strumenti e suoni ambientali in un album pop. E non solo farli convivere ma disegnare con essi paesaggi e arabeschi, inseguire i sentimenti più sottili e ineffabili, dolcezze e malinconie, facendo di ogni canzone una mini-sinfonia condensata in tre minuti (o meno), lieve e aggraziata come solo i doni degli dei possono essere.
Ci riuscì, nel 1966, un musicista di 24 anni, già famoso, che per via di quello che fu definito un “esaurimento nervoso” era rimasto a casa a comporre, mentre il resto della band con cui era diventato famoso negli Stati Uniti e in mezzo mondo era in tournée in Giappone e alle Hawaii: per lui, del resto, che sentiva la musica sgorgargli dal cuore e sfarfallare di continuo nella testa, e che la considerava nientemeno che “la voce di Dio”, suonare dal vivo, sui palchi, con tutti quegli occhi addosso, era diventata la parte meno piacevole della professione. La band si chiamava Beach Boys e aveva all’attivo diversi singoli di successo: Surfin’, Surfin’ Safari, Surfin’ Usa, Surfing girl, Get Around, Barbra Ann, California girls; canzoni in cui fiorivano cori celestiali e che facevano da colonna sonora alle tavole da surf che, negli spensierati anni ‘60, volavano sulle onde che l’oceano spingeva contro le coste della California.
Il ragazzo che non volle andare in tournée si chiamava Brian Wilson e lo scorso 11 giugno è morto, proprio mentre nella “sua” Los Angeles divampavano scontri sociali senza precedenti, con l’esercito mandato a reprimere le proteste per le espulsioni indiscriminate di immigrati: è scomparso lasciando il segno di un vuoto immenso nel panorama musicale. Di quella band costruita in casa (ne facevano parte due suoi fratelli e un cugino, e il manager era suo padre) era – ufficialmente – il bassista e una delle voci: in realtà era lui, ossessionato dalla musica fin da ragazzino, a comporre e a occuparsi degli arrangiamenti.
L’album dei sogni
Rimasto solo, col resto della band dall’altra parte del pianeta, decise di realizzare l’album dei suoi sogni: il suono avrebbe dovuto rivaleggiare con quello del più grande produttore del pop dell’epoca, Phil Spector, mentre composizioni e arrangiamenti sarebbero stati una sfida a quelli con cui i Beatles avevano appena stupito il mondo grazie all’album “Rubber soul”. Solo per le parole ebbe bisogno di un co-autore: lui aveva solo qualche verso, mezzo ritornello, l’inizio di una strofa. Per riempire gli spazi bianchi e dare un senso alle sillabe che gli mancavano si affidò al paroliere Tony Asher.
Forte del successo di quelle canzoni da spiaggia con cui aveva conquistato le classifiche negli anni precedenti, convinse la casa discografica (la Capitol records) a mettere a sua disposizione la sala di registrazione più grande, quella usata per le orchestre, e i migliori musicisti da studio di Los Angeles, la cosiddetta Wrecking crew, turnisti di formazione classica o jazzistica: se oggi sono considerati il più famoso ensemble di musicisti di studio di tutta la storia della produzione discografica americana il merito è anche di quell’album che si intitola “Pet Sounds” e che è considerato una delle vette della musica del Novecento. Quando i compari di gruppo rientrarono dalla tournée, Brian insegnò loro le parti e li guidò durante le registrazioni, dando vita a intrecci polifonici la cui bellezza, in sessant’anni, è ancora fresca come il profumo di una rosa.
Da “Pet Sounds” non fu estratto nessun singolo da alta classifica ma in quell’album le canzonette si sublimano, diventano “qualcosa di ricco e strano” e il pop un’altissima forma d’arte.
I Beatles presero nota e accettarono la sfida: nacque così "Sgt. Pepper’s lonely hearts club band”. Wilson avrebbe voluto sollevare ulteriormente l’asticella con un altro album che si sarebbe dovuto intitolare “Smile” ma riuscì a concretizzarne solo una canzone. E che canzone: “Good vibrations”, uno dei più ambiziosi, riusciti, stupefacenti capolavori musicali del secolo scorso.
Eccessi e caos
Ma alcuni componenti della band non erano per niente convinti del nuovo percorso compositivo intrapreso da Brian: volevano musica più semplici, nuove canzoni da classifica. Il delicato equilibrio di quel ragazzo visitato dagli dei o dalla voce di Dio andò in pezzi. Disillusione, paranoie, forse schizofrenia: non più qualcosa che poteva passare per un semplice esaurimento nervoso. Più gli abusi: alcol, cibo, Lsd, cocaina, anche l’eroina. I Beach Boys non lo riguardavano più: si fece da parte. Negli anni ‘70, quando l’Estate dell’Amore era ormai un ricordo, frequentava il giro delle rockstar più eccessive e turbolente. Poi passò anni chiuso in casa, spesso solo nella camera da letto: quando non si faceva scaricare un camion di sabbia per poter suonare il pianoforte come se fosse in spiaggia. Delle melodie che ogni tanto tornavano a visitarlo riuscì a fare poco e niente: giusto qualche appunto sonoro, cose strane e tristi, dicono i critici. Ingrassò fino a pesare 150 chili. E quando provò a curarsi, trasferendosi alle Hawaii, trovò un manipolatore che approfittò delle sue fragilità.
Brian Wilson non riuscì più a ritrovare lo stato di grazia di quell’anno in cui, ventiquattrenne, sembrava essere (e probabilmente, a ben vedere, fu) attraversato, posseduto dalle forze misteriose e ultraterrene che sussurrano le melodie ai loro favoriti.
Un pesce fuor d’acqua
Certo, tentò anche una reunion con i Beach Boys alla fine degli anni ‘70, negli anni ‘80 si disintossicò e si riprese, avviò una carriera solista altalenante e dopo nuove sparizioni e ritorni in scena riuscì anche, grazie al sostegno di amici fidati, a pubblicare l’album abortito (“Smile”: uscito nel 2011) e a salire sui palchi, dove comunque il genio dalle ali troppo grandi, come quelle che impedivano all’albatros-poeta di Baudelaire di camminare fra i comuni mortali, rimase sempre un pesce fuor d’acqua, con la goffaggine e la dolcezza degli eterni bambini. Ma tutti quelli che hanno provato a fare canzoni, negli ultimi decenni, hanno sempre saputo di cosa parliamo quando parliamo di Brian Wilson e della musica che ci lascia. Paul McCartney ed Elton John, per dire, l’hanno salutato con messaggi pubblici in cui si usa la parola “genio”, Bruce Springsteen l’ha salutato come un “maestro”, Sting ha pubblicato una sua versione voce e chitarra di “God only knows”.