Una tela bianca da riempire. E fuori dai suoi confini, una galassia di vissuto che spinge per entrare. Sgomita per trovare spazio in quella superficie.

Ogni processo di creazione, in qualche modo, si alimenta da quel groviglio sospeso e in ingresso. Un trasporto da gestire che richiede rispetto, selezione, certamente tanto ascolto. Perché spesso in quella distesa bianca e falsamente accogliente, c’è già di tutto. Anzi di troppo. Luca Zunica, radici culturali bolognesi e slancio verso la campagna marchigiana come luogo dove raccogliere utopie e contenuti, non è solo un artista dell’ascolto. La sua ricerca pittorica è incentrata in quella capacità di saper guardare e alleggerire. Togliere dalla tela, più che riempire. Ma per farlo è necessario osservare fisso negli occhi quel bianco saturo.

LA RICERCA Visibilità e leggerezza, sono le due parole chiave che si fondono nei suoi lavori per tracciare un itinerario di ricerca, dove agiscono i sensi, e quindi un’esplorazione di conoscenza. Proprio in sintonia con quanto suggerito da Italo Calvino in Lezioni Americane. È questo il primo passo: l’arte non è, tanto banalmente, una questione di nervo ottico. L’artista che esplora l’esistente, fuori e dentro quella superficie ancora candida, ha a che fare con un complesso di connessioni e collegamenti. Immagini, forme, colori, relazioni e voci che negli anni, giorno dopo giorno, si depositano silenziose come una moltitudine di reperti per decantare in uno spazio forse sconosciuto ma concreto. Da qui la necessità di fare come l’archeologo che indaga. Toglie strati di terriccio depositati nei millenni di esistenze e di rumori per dischiudere visioni in purezza.

Studio dell'artista Luca Zunica (foto concessa)
Studio dell'artista Luca Zunica (foto concessa)
Studio dell'artista Luca Zunica (foto concessa)

MATERIA Alleggerire, dunque. «Non so esattamente cosa mi spinge alla pittura», riflette l’artista. «Una volta progettavo di più, pur nell'astrazione: schemi, divisione dello spazio-tela, materia anzi materie diverse. In genere, vado per strati e uso indifferentemente olio, tempera, acquerello, acrilico, sabbia, carta, gessetti, insomma tutto quello che mi “ispira” da un punto di vista materico. Poi un giorno le griglie e gli schemi si sono rotti. Restano spunti di segni, andamenti, trame. Quasi sempre a monte c'è la visione della Natura o delle materie (muri, porte scrostate, cieli, nuvole). E poi la sabbia, la carta e i colori in genere della gamma blu, azzurri, viola». A questo punto appare più diretto il legame tra la visibilità di Calvino e quella che attraversa il lavoro pittorico di Zunica. Ciò che interessa non è l’immagine chiusa in una forma, ma è ciò che fantasticamente attraversa la pupilla senza il filtro razionale del cristallino. Solo così l’occhio dell’artista diventa quel «posto della fantasia dove ci piove dentro», per dirla con le parole di Calvino che riprende Dante.

Opera senza titolo (foto concessa)
Opera senza titolo (foto concessa)
Opera senza titolo (foto concessa)

Ogni visione non può essere cristallizzata. Tanto meno da un titolo, vero macigno che impedisce un guardare dall’alto, leggeri sulle cose del mondo. «In genere non titolo. Quando succede, talvolta viene in modo spontaneo, altre volte serve per identificare. Ma non mi interessa molto. Il titolo blocca l'immaginazione». Ovvero, assorbe, asciuga la pioggia della fantasia. Visibilità e leggerezza, due valori cari all’autore di Lezioni Americane, che tracciano dunque traiettorie di pensieri, itinerari possibili della pittura di Luca Zunica. Una ricerca continua di qualcosa all’interno di quello scatolone della vita dove tutto accade, si intreccia e si deposita. Le superfici astratte e ruvide dell’artista nascono da quel lavoro di scavo archeologico: materiali vari, collage che creano superfici increspate e stratificate. Ed è sintomatica la riflessione di Zunica: «Non è sempre un piacere o solo un piacere dipingere. Molte volte è fatica per cercare la soluzione più adatta. Ma più adatta a cosa? Alla realizzazione di un equilibrio? A quello che stai sentendo? Non c'è un tema in particolare. In quello spazio-tela qualcosa accade e bisogna “capire”/sentire cosa. Ogni volta è diverso. L'equilibrio tra seguire quel che la mano armata di matita, pennello, spugne, cacciaviti o altro, fa accadere e governarlo».

La sapienza di distinguere l’essenziale dal superfluo. Ovvero una terza chiave di ingresso per nuovi orizzonti pittorici: la forza rivoluzionaria della sobrietà. Che per l’artista ha un valore estetico più che morale. Esistenze mai urlate, sorretta dalla eleganza e dalla consapevolezza, rarissima oggi, che nella riscoperta del vuoto (più visionario del pieno) si materializza l’esattezza perfetta. Sono queste le proiezioni future, inedite e per certi versi prossime alla filosofia Zen, che sviluppano il lavoro pittorico dell’artista. E tra queste sicuramente il ritorno a quell’Intervallo perduto, tanto auspicato dal grande intellettuale Gillo Dorfles. «L’ipertrofia segnica ha raggiunto un parossismo per cui avvertiamo (o meglio dovremmo avvertire) sempre di più la necessità d’una pausa immaginifica. L’unica speranza è quando ci si presenta – inattesa e benvenuta – la tanto osteggiata pausa, quando finalmente ritroviamo un autore contemporaneo (musicista o poeta) che ci pone di fronte a qualche tentativo di ripristinare l’intervallo perduto, vincendo dunque l’horror pleni che pochi avvertono e che tutti invece dovrebbero temere». (Corriere della sera, 4 dicembre 2009).

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