Nella primavera del 1946 la situazione era tale che si arrivò a valutare il trasferimento in Continente dell’intera popolazione dell’Isola. «Non lo consideri un paradosso, la prego», fu la premessa fatta dal professor Antonio Melis nell’intervista rilasciata a Vittorino Fiori il 2 giugno 1946. Originario di Jerzu, direttore della stazione di entomologia agraria di Firenze, il professore era l’entomologo capo del ministero dell’Agricoltura e, come consulente del governo e dell’Unrra (United Nation Relief and Riabilitation Administration, in pratica il braccio umanitario della Grande alleanza guidata dagli Stati Uniti), coordinava in Sardegna la lotta alle cavallette. «Se gli alleati, il governo centrale e gli abitanti delle zone colpite non fossero stati così concordi e solidali nel condurre la battaglia a fondo, ci saremmo trovati nella dura e inderogabile necessità di evacuare la Sardegna».

Un flagello mai così grande

Lunedì 3 giugno l’Unione Sarda apriva con la notizia della prima giornata di voto per l’elezione dell’Assemblea Costituente e per la scelta tra monarchia e repubblica, ma per i sardi (uomini e donne, in Italia furono quelle le prime elezioni a suffragio universale maschile e femminile) - che in massa avevano votato per il re: 319.557 voti contro 206.098 - la vera sfida da vincere era un’altra. Quella di cui il giornale raccontava da settimane, e di cui quel giorno faceva il punto. L’Isola era invasa dalle cavallette, un flagello di proporzioni mai viste nella terra che pure aveva conosciuto spaventose infestazioni nella primavera del 1868 (si racconta che a Sassari si raccoglievano ogni giorno 40 quintali di insetti), nel 1915, nel ’29, nel ’33.

Il cielo oscurato

Nel 1946 nessun Comune venne risparmiato. Sciami neri di cavallette con un fronte di chilometri si abbatterono su oltre un milione e mezzo di ettari di superficie (ben più della metà del territorio regionale), un’estensione sei volte più grande dei 250mila ettari distrutti nel 1933. Alla fine, l’entità dei danni nel comparto agricolo e zootecnico fu enorme: un miliardo e 300 milioni di lire del tempo. Agli inizi di giugno, dopo settimane di battaglia, qualche risultato cominciava a vedersi in Baronia, nella Nurra di Alghero e nel Campidano di Oristano, ma ovunque - nel resto dell’Isola - le cavallette invadevano ancora i pascoli, i campi coltivati e i centri abitati, dove a nugoli tappezzavano letteralmente le vie e le facciate delle case. Tanto ben di Dio seminato nelle campagne era stato divorato, e adesso l’urgenza era quella di contenere il più possibile la calata degli insetti nelle pianure del sud dell’Isola coltivate a grano. «Son tonnellate e tonnellate di insetti che noi abbiamo già messo fuori gioco», diceva il professor Melis.

Una strategia di tipo militare

La battaglia, però, era ancora lunga e lui non lo nascose. L’ombra della carestia aleggiava pesantemente sulla Sardegna che, stremata dagli anni della guerra, era allora il terreno di un’altra campagna condotta dall’Unrra, quella contro la malaria, temporaneamente passata in secondo piano. C’era da sconfiggere un flagello di proporzioni inaudite e perciò si organizzò una campagna di lotta mai vista in nessun’altra parte del mondo. Una campagna condotta col fuoco e potenti agenti chimici, organizzata in maniera militare. Nei porti dell’Isola arrivavano le navi cariche di bidoni contenenti sostanze chimiche; pirofori (che contenevano una scorta di dieci litri della miscela di petrolio e benzina) e lanciafiamme; apparecchi nebbiogeni e pompe irroratrici. Le strade della Sardegna erano percorse in lungo e in largo dai camion e dalle jeep, file di mezzi con la scritta “Servizio di lotta alle cavallette”, che trasportavano le squadre della manodopera, le attrezzature, le scorte di miscela e dei prodotti chimici.

Le esche avvelenate

Furono utilizzati senza misura insetticidi di ogni sorta, in prevalenza l’arsenito di sodio, sparso sotto forma di esca avvelenata, in un composto preparato con la crusca di grano (i rifornimenti venivano garantiti da molti Paesi, tra cui la Gran Bretagna) e disseminato ovunque dalle squadre di lavoranti assunti a giornata che procedevano a piedi nei campi, coi sacchi in spalla; o armati di paletta e schierati dentro i cassoni dei camioncini, coi piedi piantati dentro il cumulo di materiale. Il composto veniva inoltre fornito agli agricoltori e ai pastori che provvedevano a spargerlo nei loro poderi.

I danni per l’ambiente

La crusca, però, non poteva bastare, sicché si ricorse alle irroratrici, portate a spalla dagli uomini senz’alcuna protezione per la pelle e le vie respiratorie. Un composto velenoso (il cui uso oggi è fortemente limitato per la sua tossicità) che finì per uccidere anche molti capi di bestiame e bestie selvatiche. Quell’anno furono riversati nelle terre della Sardegna 143mila quintali di crusca con arsenito sodico, 2.500 quintali di altri composti chimici, 14.300 quintali di liquido nebbiogeno.

La mobilitazione

Un’organizzazione militare della battaglia, si diceva. Le direttive partivano dall’ispettorato compartimentale agrario dove giungevano le notizie dai territori. In ogni provincia (allora erano quelle di Sassari, Nuoro e Cagliari) operava l’ispettorato per l’agricoltura e in ogni Comune c’era un caposquadra che coordinava la manovalanza e un esploratore per l’identificazione dei focolai. Non c’era luogo dell’Isola dove non si lavorasse per la causa, dai porti (dove arrivano i sacchi di crusca e i bidoni di liquido infiammabile e agenti chimici) alle chiese sconsacrate (dove la crusca veniva addizionata con l’arsenito di sodio). In ogni provincia furono reclutati centinaia di uomini (anche anziani e ragazzi), poi sommariamente addestrati all’utilizzo delle irroratrici, dei pirofori e dei lanciafiamme; mentre le donne e i bambini collaboravano nella raccolta a mano degli insetti.

La Storia insegna

C’era bisogno di tutte le braccia disponibili, sicché - per tutti i cittadini dai 18 ai 60 anni, abili e in salute - si stabilì l’obbligo di partecipare allo sterminio delle cavallette per almeno cinque giornate lavorative. Il flagello sarebbe tornato più volte nei decenni che seguirono, ed è cronaca di oggi. Cause e responsabilità vanno chiarite, ma ciò che è importante è non dimenticare quanto accaduto in passato. La Storia insegna, sempre.

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