Quanto è costato essere Robbie Williams? E’ la domanda da cui partire per descrivere la docuserie in onda su Netflix che racconta la vita della popstar britannica. Avete presenti le serie celebrative o autocelebrative? Tutto il contrario. E’ un viaggio doloroso nella vita, e soprattutto nella testa, di un ragazzo, oggi oggi quasi cinquantenne, travolto dal successo.

Travolto nel verso senso della parola.

Un viaggio nella paura, nel disagio mentale, nell’anoressia, nell’ansia, un tour fobico nel vortice di drammatici attacchi di panico, nell’insofferenza alle regole. Un’immersione nell’alcol e nelle droghe. Tutto vero, costruito attraverso migliaia di ore di filmati girati davanti e dietro le quinte, nelle sue case, negli alberghi dove risiedeva, con le persone con cui condivideva la vita.

La docuserie, diretta da Joe Pearlman, mostra il Robbie Williams di oggi nella sua splendida villa tra grandi giardini, bambini (i suoi quattro figli) e sua moglie Ayda. Una telecamera lo segue di giorno ma anche durante le sue frequenti notti insonni. Lui ha in mano il suo macbook, ogni tanto lo apre e mostra gli spezzoni dei video che lo raccontano, che seguono una cronologia precisa. Ogni tanto lo chiude, commenta ciò che vede, si commuove, dice di non voler rivedere certe immagini.

La docuserie non è la celebrazione del successo fine a se stesso né l’ostentazione della celebrità e dei privilegi annessi. E’ un viaggio nel dolore e nel disagio costante di un ragazzo, poi di un uomo, bello e dannato, che si è trovato dentro un vortice che ha fatto deflagrare le sue fragilità e le sue insicurezze. Per gestirle ha scelto per lunghi periodi la vodka, la cocaina e l’ecstasy. Un uomo che si è rialzato e ricaduto decine di volte, che ha conosciuto l’abisso e la venerazione di milioni di fan, che ha conosciuto la ricchezza ma non ha mai raggiunto la felicità se non negli ultimi anni grazie alla donna che per amore lo ha aspettato, nonostante tutto, e ai suoi figli.

Il viaggio inizia nel 1990 quando Robbie ha 16 anni ed è il membro più giovane dei Take That, la boy band nella quale era entrato rispondendo a un annuncio in un giornale. Il successo li travolge presto. Lui è da subito insofferente verso il leader, Gary Barlow, e nei confronti delle regole imposte dai manager del gruppo. Alcol e droghe arrivano in fretta, sfiora un’overdose prima di un evento di Mtv a Berlino, diventa inaffidabile ed è inevitabile che dopo pochi anni di successo travolgente e litigi lasci la band, che nel febbraio del ’96 annuncia lo scioglimento.

Williams ha 22 anni ed è già alla deriva e i tabloid non ne hanno pietà. Mostrandolo ubriaco, sconvolto dalle droghe, evidenziandone le fragilità. Quella morbosità che lo espone costantemente alla mercè dell’opinione pubblica è concausa della sua instabilità mentale, una delle ragioni che lo spingono verso l’autodistruzione.

Nel ’96 entra per la prima volta in un centro di riabilitazione poi avvia la sua carriera solista, pubblica il suo primo album e inizia a mietere successi in classifica e nei live. Un’escalation inarrestabile in Europa, lo sbarco in sordina negli Usa, il contratto da 125 milioni di sterline con la Emi, i sold out negli stadi. In tutte queste occasioni ha sempre sofferto di attacchi di panico, ansia, non si è mai sentito all’altezza della fama. Ma è quando pubblica il suo settimo album, Rudebox, che qualcosa si rompe di nuovo. Lui racconta che è il disco che lo rappresenta di più e funziona quasi dappertutto ma non in patria dove il singolo che dà il titolo all’album viene definito “la canzone peggiore di sempre”. Anche le vendite sono decisamente inferiori alle attese e lui cade di nuovo: depressione, abuso di droghe e di alcol. Poco dopo torna in rehab e si ritira dalle scene. E’ il 2007 e in quel momento, ironia della sorte, i Take That iniziano un tour mondiale. Nel 2009 incide il suo ottavo album, Reality killed the video star e torna in vita.

Da allora è un susseguirsi di successi tra un nuovo tour con la sua ex boy band, riconoscimenti ufficiali, nuovi album, concerti davanti a fan adoranti. Nel 2010 si sposa con Ayda Field, la donna che ha saputo accoglierlo quando era complicato farlo. Hanno quattro figli, che ogni tanto vengono mostrati mentre giocano felici nel grande prato della loro villa da favola in Svizzera.

La docuserie mostra la più grande che più volte, mentre il padre rivive la sua vita davanti alle telecamere, entra e lo abbraccia, poi torna fuori campo. Lui, che ormai ha i capelli bianchi e sul viso i segni di una vita complicata, dice che vive per loro. Nel finale si vede lui che fa la valigia e parte per una tourneé che lo terrà lontano. Sembra volere tutto fuorché lasciare il suo paradiso. Si commuove mentre sale sul van che lo porta in aeroporto. Ma, dice, devo continuare a cantare perché loro questo paradiso lo meritano.

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