Ormai lo scontro si è aperto e andrà avanti fino agli ultimi giorni di settembre. Il Movimento 5 Stelle ha aperto la crisi sfociata poi nella fine della legislatura, decidendo di non votare il decreto Aiuti sul quale il premier Mario Draghi aveva posto la fiducia per la contrarierà ad alcuni provvedimenti contenuti nella norma: uno su tutti, il termovalorizzatore di Roma, parola che i grillini proprio non vogliono sentir pronunciare. La crisi ha travolto il Governo e ora la discussione si sposterà nella campagna elettorale dove terranno banco temi come il Superbonus e il Reddito di cittadinanza, misure sulle quali il presidente del Consiglio Draghi aveva mostrato non poche perplessità. Nel caso degli incentivi 110%, ad esempio, lo scontro non ha riguardato l’impianto del provvedimento, come ha spiegato al Senato lo stesso Draghi, quanto le storture nate dalle cessioni dei crediti tra intermediari finanziari (e dalla scrittura piuttosto contorta delle norme sugli incentivi) ma soprattutto i timori che nei prossimi anni questi cespiti possano pesare sul bilancio statale e finire per appesantire un debito pubblico che è già oltre i 2.700 miliardi di euro. Oggi, alla luce dei rialzi dei tassi decisi dalla Bce, questo timore è ancora più reale.

Nei prossimi anni, peraltro, una volta terminata l’emergenza pandemica e le misure straordinarie messe in campo per affrontarla, anche l’Unione europea riprenderà a fare le pulci ai conti dell’Italia e saranno dolori se le riforme e i fondi del Pnrr non saranno andati a segno, stimolando una crescita duratura della nostra economia.

Il reddito di cittadinanza

Tra le misure che rischiano di appesantire i conti dello Stato c’è anche il Reddito di cittadinanza, fortemente voluto dai grillini e contestato con altrettanta forza dalle altre forze politiche. Tanto che Matteo Renzi ha depositato un quesito referendario per abolire la misura voluta dal Governo guidato da Giuseppe Conte, che sarà anch’esso al centro del dibattito parlamentare.

Posto che molto probabilmente non ci saranno i tempi per arrivare a un referendum prima di una possibile riforma della misura, l’iniziativa di Renzi è una provocazione politica, tesa ad alimentare la distanza dai grillini di quello che oggi si sta delineando come il raggruppamento intorno all’Agenda Draghi.

Pro e contro

A parte le iniziative politiche, tuttavia, vale la pena di cercare di capire se abbia funzionato e quanto è costato alle casse statali il Reddito di cittadinanza, contro cui puntano il dito anche parecchi imprenditori e industriali, qualificandolo come la causa delle difficoltà nel reperire manodopera in questo periodo. La norma venne varata, va ricordato, come misura di politica attiva del lavoro (ossia per fare in modo che i disoccupati venissero accompagnati verso un nuovo impiego), contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all’esclusione sociale. Se la vediamo nell’ottica del contrasto alla povertà, bisogna dire che la misura ha aspetti positivi perché garantisce un reddito (fino a 800 euro al mese) a persone che ne sono prive e che quindi possono spendere e incrementare i consumi, stimolando anche l’economia. Secondo i dati dell’Inps, solo il 20% di chi incassa il Rdc ha un’occupazione, mentre il 60% dei beneficiari ha contratti a termine o a tempo parziale.

A fronte di questo, sempre secondo il rapporto annuale dell’Inps, nei primi 36 mesi di applicazione della misura, dall’aprile 2019 allo stesso mese del 2022, il costo è stato pari a 23 miliardi di euro, raggiungendo 2,2 milioni di nuclei familiari, per un totale di 4,8 milioni di persone. L’importo medio mensile si aggira intorno ai 577 euro a beneficiario.

Lavoro

Il punto successivo è: il Reddito di cittadinanza funziona come aiuto per trovare un lavoro (posto che i beneficiari devono essere seguiti dai Centri per il lavoro e perdono il diritto se rifiutano un impiego reiteratamente)? Su questo fronte, l’atavica difficoltà italiana sulle politiche attive per il lavoro, ossia le attività messe in campo per aiutare le persone a trovare un impiego, non ha fatto un passo in avanti con il Rdc. Secondo il rapporto dell’Inps, prendendo come base chi ha ricevuto il Reddito di cittadinanza per almeno 11 mensilità, l’80% è risultato non avere avuto alcuna posizione lavorativa nell’anno preso in esame. Tradotto dal burocratese, solo il 20% è stato avviato a un impiego. Al Nord la situazione è un po’ meno negativa, con il 26% di lavoratori che ottengono anche l’assegno per il Rdc, mentre si sale al 36% tra gli extracomunitari. In ogni caso, ribadisce il rapporto dell’Inps, la maggioranza di chi ha trovato un lavoro ha avuto un contratto non stabile ma a termine o a tempo parziale.

Il Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza, voluto dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e presieduto dalla professoressa Chiara Saraceno, ha dato le risposte a dieci domande sull’utilità del Rdc. Anche per arrivare poi a modifiche le norme, migliorandone l’operatività. E non sempre i giudizi sono lusinghieri, soprattutto nella parte che riguarda l’occupazione. “Allo stato attuale, circa la metà dei beneficiari del RdC è indirizzata non ai centri per l’impiego, ma ai servizi sociali comunali, per la stipula di un patto di inclusione”, si legge nel rapporto. E ancora: “Il numero totale di beneficiari che - indipendentemente dalla condizione occupazionale al momento di accesso al beneficio e dallo stato della domanda (terminata, decaduta, in corso di validità, ecc.) – sono transitati nelle politiche del lavoro nel periodo compreso tra marzo 2019 e la fine di settembre del 2021 è stato pari a 1.808.278. Circa 178.000 di tali beneficiari avevano un rapporto di lavoro al momento dell’ingresso nella misura, mentre altri 547.000 circa (cioè il 30,2% del totale) lo hanno trovato successivamente. Quindi poco meno di 725.000 di quei beneficiari (il 40,1%) aveva già un lavoro o lo ha trovato successivamente. Inoltre, va tenuto presente che poiché non pochi di essi hanno cambiato più di un lavoro nel periodo, sono stati più di 1,5 milioni i complessivi rapporti di lavoro movimentati”.

Tutto questo a fronte di 4,8 milioni di percettori (nei quali però ci sono anche minori) e di una spesa consistente: 23 miliardi di euro.

Di solito la spesa pubblica, in alcuni settori, stimola altri investimenti, ma questo non sembra proprio il caso di scuola. Anzi. Appare più una spesa corrente che non riduce la profondità delle diseguaglianze e non guarda al futuro, incrementando l’iceberg dell’indebitamento pubblico. E nel futuro i nostri figli dovranno invece pagare queste scelte, restituendo i soldi di un debito statale pachidermico.

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