“Questa non è una legge risolutiva, ma è comunque un passo avanti molto importante, inoltre, è più avanzata della direttiva comunitaria in corso di discussione in Europa. Per ora ci sono 50 milioni di euro per il 2022, ma l’obiettivo è di rendere l’impegno strutturale, e su questo faremo una battaglia”. Romina Mura, deputata del Pd e presidente della commissione Lavoro della Camera, è soddisfatta. Il provvedimento sulla parità salariale, con un testo che ingloba iniziative di diversi schieramenti politici e modifica l’articolo 46 del Codice delle pari opportunità, è stato licenziato anche al Senato in tempi record.

L’articolo 37 della Costituzione dice che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. Ecco, si trattava di tradurre in legge questo principio.

Con la nuova legge si mira a ridurre il gender pay gap, cioè quella situazione molto diffusa per cui le donne sul lavoro subiscono continue discriminazioni economiche, e non solo. Da combattere, ci sono quei trattamenti – dice il testo -  che “in ragione del sesso, dell'età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, pongono o possono porre la lavoratrice in posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri addetti, generano limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali, e creano ostacoli riguardo ad avanzamento e progressione nella carriera”.

La legge fissa l’obbligo per le aziende con più di 50 addetti – prima era 100, è stato abbassato il parametro – di presentare un rapporto periodico sulla situazione del personale, e le realtà virtuose in tema di uguaglianza saranno premiate con sgravi contributivi. Ancora: ci sarà un certificato di qualità per le imprese che adotteranno misure volte all’eliminazione degli ostacoli alla parità retributiva e di possibilità di carriera. La legge, inoltre, comprende anche la nozione di discriminazione diretta e indiretta, e include tutti quegli atti di natura organizzativa e oraria che sfavoriscono le donne.

Secondo dati Inps rielaborati dalla Uil, il gender pay gap si quantifica in 2.300 euro in meno al mese in media per una donna dirigente rispetto a un suo collega maschio, in una differenza di 800 euro per le impiegate, di 700 per i “quadri”, in 600 euro per le operaie, in 160 euro per le apprendiste.

La relatrice e promotrice dell'iniziativa, la deputata del Pd Chiara Gribaudo, ha ricordato “le 470.000 donne che hanno perso il lavoro durante la pandemia”, e evidenziato che “in Italia le laureate sono il 56% del totale di chi ottiene il titolo, ma solo il 28% dei manager e che è ancora possibile per una donna ricevere fino al 20% di stipendio in meno del collega uomo, con medesime mansioni e ore lavorate”.

Romina Mura, nella sua dichiarazione di voto, ha spiegato che  “se l'uguaglianza fra uomo e donna fosse perfetta, avremmo un maggior apporto di Pil di 28mila miliardi di dollari, l'equivalente, praticamente, del Pil americano e cinese messi insieme. Per quanto riguarda il nostro Paese, secondo Bankitalia, se l'occupazione femminile raggiungesse il 60 per cento - mentre oggi siamo sotto il 50, e nel Mezzogiorno d'Italia poco sopra il 30 -, il Pil vedrebbe una crescita di ben 7 punti percentuali in maniera strutturale. Pensiamo che il rimbalzo post-pandemia ci ha portato a una crescita del 6 per cento.

Non è un caso che la finanza orientata al genere stia diventando una delle aree di investimento sostenibile e con i maggiori margini di crescita e, infatti, l'indice di parità di genere è compreso fra gli elementi considerati da investitori e azionisti. Sapere di relazionarsi e collaborare con aziende che attuano strategie di pari opportunità e pay equity aumenta la reputazione sociale, perché evidenzia la capacità delle stesse di dare valore e di mettere a reddito tutti i talenti. La parità incide positivamente sui conti economici: le aziende, i cui vertici sono formati da almeno il 25 per cento di donne, presentano risultati operativi decisamente migliori. E non è, allora, un caso che le grandi aziende, così come quelle quotate, abbiano avviato, negli ultimi anni, importanti progetti di abbattimento della discriminazione salariale, tant'è che, in questi contesti, il gender pay gap si è ridotto, dal 10 per cento nel 2018 al 5,3 nel 2020”.

Uno studio della società di consulenza McKinsey – prosegue la deputata – dice che date le attuali condizioni di disparità nei 95 Paesi analizzati nel report, le donne, attraverso il proprio lavoro - retribuito - generano il 37 per cento del Pil, pur essendo oltre il 50 per cento della popolazione attiva. In Europa questa percentuale sale al 40 per cento. Se, invece, il termine di riferimento non è più il lavoro retribuito, bensì il lavoro di cura, quello gratuito - e quello è ostaggio di un concetto di informalità per cui, naturalmente, deve essere sulle spalle delle donne - i dati cambiano: il 75 per cento è svolto dalle donne e non viene calcolato nel Pil, se invece fosse calcolato come elemento di ricchezza, il suo valore sarebbe pari a circa 10 miliardi. “E il tema del lavoro di cura - non lo cito a caso - gratuito, contenuto e inteso all'interno di un concetto di informalità è una delle cause che spesso porta le donne a scegliere di non lavorare, a scegliere il part time involontario, a scegliere di rinunciare al proprio percorso”.

Dunque, “l'uguaglianza di genere, non solo è una misura di giustizia sociale ed equità sociale - e questo non è poco - ma conviene economicamente, è una condizione sine qua non per intraprendere quel percorso di crescita sostenibile che, sola, può restituire competitività al nostro sistema economico”.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

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