Forse perché al passo dell’addio non ci sono tatticismi che valgano, piccoli vantaggi da predisporre o alleanze da compiacere e ci si può concedere il lusso del narcisismo, o addirittura dell’onestà, ma i discorsi di dimissioni dei primi ministri britannici raramente sono insignificanti.

Magari non sono tutti memorabili ma meritano comunque sempre un briciolo d’attenzione. A volte lo esigono, come nel caso di Boris Johnson, che si è congedato in modo bizzarro, molto in stile con il suo approccio informale e disinvolto alla vita istituzionale, salutando l’assemblea di Westminster con un “Hasta la vista, baby!” che ha lasciato molti a bocca aperta.

Gli altri, quelli che hanno riconosciuto la citazione di “Terminator”, sono andati col pensiero all’altra frase celebre pronunciata dal personaggio di Schwarzenegger: “I’ll be back”, tornerò. Ha un senso, visto che i conservatori hanno sfiduciato compattamente il loro primo ministro per via di tutte le menzogne, gli scandali e gli scandaletti nati dal suo doppio standard sulle restrizioni da Covid da imporre alla nazione e da risparmiare a sé stesso, ma la base del partito sembra sempre meno convinta dell’opportunità di chiudere Boris in un cassetto della storia senza dargli una seconda chance di presentarsi per la leadership (come invece impongono le nuove regole di partito cucite su misura addosso a Mr Brexit come una camicia di forza d’alta sartoria).

Prima di Johnson era toccato a Theresa May congedarsi, travolta dalla propria incapacità di trovare un accordo con l’Europa che salvasse la capra della Brexit e i cavoletti di Bruxelles dei rapporti commerciali con l’Ue. Nessuna citazione da filmoni di fantascienza, evidentemente, ma in compenso ci fu un memorabile accento di verità umana. In aula, ma soprattutto quando si congedò dalla stampa davanti alla residenza di Downing Street e ammise fra le lacrime: “Ho provato di tutto, ma ho fallito”. 

Il suo predecessore David Cameron fu di inarrivabile eleganza inglese. Nel 2005 da giovane leader dell’opposizione conservatrice aveva attaccato il premier Tony Blair, ex golden boy laburista, scandendo in aula: “Voglio parlare del futuro. E lui era il futuro, una volta”. Cinque anni dopo il premier era lui e dopo altri sei anni era finita anche la sua avventura a Downing Street, conclusa dal referendum sulla Brexit che Cameron, europeista, aveva convocato convinto che il voto avrebbe blindato il rapporto di Londra con l’Unione europea. Smentito dalle urne e dagli umori del paese, in Parlamento si congedò così: “L’ultima cosa che voglio dire è che si possono fare molte cose in politica. E alla fine il servizio per la collettività, l’interesse nazionale è ciò che importa. Niente è davvero impossibile se ci metti davvero le tue energie. Come ho detto una volta: dopo tutto io ero il futuro, una volta”.

Prima di Cameron a Downing Street c’era stato il laburista Gordon Brown, eterno erede designato di Blair che però, volando da un successo elettorale all’altro, per lunghi anni aveva rimandato la staffetta con l’amico-rivale. Forse per questa lunga attesa frustrante, forse per un elemento caratteriale difficile da dissimulare, forse per l’atteggiamento professorale che lo portava a chiedere non “come stai?” ma “che cosa stai leggendo?” ai conoscenti che incontrava, di fatto Brown fu visto come una figura introversa anche dai sostenitori e addirittura come un Nixon di sinistra – per il carattere cupo e sospettoso, non per le intercettazioni – dai molti detrattori. Per questo il suo addio colpì più d’uno per il suo tratto sobriamente umano: “E ora che lascio il secondo lavoro più importante della mia vita, mi rimane il primo, come marito e padre. Grazie e arrivederci”.

Blair era stato più melodrammatico e sulla difensiva, ma in fondo se ne andava da tutto – premier, leader laburista, parlamentare – sapendo che l’ombra lunga dell’appoggio alla guerra di Bush in Iraq lo avrebbe perseguitato per sempre, ben più dell’accusa di aver annacquato nel centrismo la carica progressista del Labour: “Con la mano sul cuore, vi dico che ho sempre fatto quello che pensavo fosse giusto. Posso aver sbagliato, sarete voi a giudicarmi. Ma ho sempre fatto quello che ho ritenuto fosse il meglio per il nostro paese”.

Non resta molto nella memoria collettiva del congedo del suo predecessore, il conservatore John Major. Oggi è un ex leader rispettato, anche per l’ostinazione nel difendere l’appartenenza della Gran Bretagna all’Ue mentre l’ondata del Leave trascinava la leadership conservatrice, e il senno di poi qualche ragione gliela sta garantendo e probabilmente gliene garantirà in futuro sempre di più. Tuttavia il suo educato grigiore, l’essere sostanzialmente uno snodo narrativo fra la saga thatcheriana e lo storytelling blairiano della Cool Britannia schiaccia molto la sua retorica e i suoi messaggi. A stagliarsi resta la sua previsione negli ultimi giorni a Downing Street, poco prima del giudizio degli elettori: “Penso che la spunteremo”. Neanche a dirlo, la vittoria dei laburisti fu la più larga nella storia del partito.

Quanto a Margaret Thatcher, era un pezzo di Storia, un’icona non solo conservatrice e non solo britannica. E avrebbe potuto dire qualunque cosa sapendo di inciderla non solo sulle pagine dei giornali, eppure neanche scrivendo in aula l’ultima riga del proprio testamento politico volle autocelebrarsi, né deflettere dalla dura e pura militanza liberista: “Mi sono dimessa e ci sarà presto un successore. Gli auguro ogni bene. Sono certa che continuerà le politiche che hanno avuto tanto successo per la Gran Bretagna e che continuerà a sconfiggere il socialismo”. Per capire che cosa significasse per lei l’addio a Downing Street bisognò aspettare sei mesi, quando in un’intervista sulla nuova dimensione privata della sua esistenza tagliò corto: “Casa è dove si va quando non si ha niente di meglio da fare”.

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