Per il saluto al mondo che l’ha applaudito per una vita ha scelto la classica crepuscolare per eccellenza: quella delle foglie morte. Ma non è soltanto quello. Il Giro di Lombardia Vincenzo Nibali l’ha vinto due volte e quei trofei (assieme a quello conquistato con un colpo di classe dei suoi alla Milano-Sanremo) costituiscono il documento che attesta la sua appartenenza all’élite dei fuoriclasse completi, assoluti. Ora che, a poche settimane dal 38° compleanno, lo “Squalo dello Stretto” lascia le corse, l’Italia ciclistica è costretta a guardarsi dentro. Per celebrare, come il tennis ha fatto con Roger Federer, il nuoto con Federica Pellegrini, il motociclismo con Valentino Rossi, la carriera del più grande corridore italiano del ventunesimo secolo. Lo dicono i numeri: più di cinquanta vittorie da professionista, con la Tripla Corona dei Grandi Giri (due volte il Giro d’Italia, una volta il Tour de France, una la Vuelta a España) e tre classiche monumento. E dire che ha buttato via un Mondiale (Firenze) e un’Olimpiade (Rio) e altre volte ha sfiorato successi memorabili (la Liegi del 2012 persa dal kazako Maxim Iglinskiy, poi coinvolto in casi di doping).

Da sinistra, Vincenzo Nibali, il ds Astana Paolo Slongo, e Fabio Aru  a Sestriere nel 2015 (foto c.a.m.)
Da sinistra, Vincenzo Nibali, il ds Astana Paolo Slongo, e Fabio Aru  a Sestriere nel 2015 (foto c.a.m.)
Da sinistra, Vincenzo Nibali, il ds Astana Paolo Slongo, e Fabio Aru a Sestriere nel 2015 (foto c.a.m.)

Vincenzo e Fabio

Partito da Messina, dove il padre all’inizio gli aveva persino segato il telaio della bici perché non trascurasse gli studi, passato attraverso Mastromarco, in Toscana, Nibali è stato uno dei tanti “emigranti” della bici, trasferitisi dal Sud verso le regioni dove l’attività Under 23 è più diffusa (sarebbe più corretto dire dove esiste), affermatisi a prezzo di duri sacrifici: quelli imposti dalla natura di uno sport crudele, in aggiunta a quelli della lontananza da casa. Chi fa il ciclista in questi casi trova una seconda “famiglia”, adottiva a cui si affeziona. Fabio Aru divenne “bergamasco”, per arrivare al professionismo, prima di trasferirsi a Lugano, seguendo su richiesta dell’Astana proprio l’esempio di Vincenzo. Loro due sono stati le grandi speranze del ciclismo italiano nelle corse a tappe, talmente superiori a tutti gli altri da far ipotizzare una rivalità che di fatto non c’è mai stata. In gara raramente hanno lottato per la vittoria, più spesso hanno collaborato, essendo stati compagni di squadra. Come nel Giro del 2013, quando Aru nella tappa decisiva delle tre Cime di Lavaredo, tirò come un dannato sotto la neve, per poi chiudere 5° mentre il compagno trionfava in rosa. O come all’Olimpiade di Rio de Janeiro, quando ancora Fabio fece il forcing per propiziare l’attacco del compagno azzurro, poi finito per terra (e toccò al Cavaliere dei 4 Mori salvare l’onore spedizione con il 6° posto). Rivali per poco, amici per una vita. Di certo Fabio non è mai diventato l’erede di Enzo: per un fatto tecnico (il siciliano è sicuramente più completo) e temporale (il villacidrese si è ritirato un anno prima, nel 2021).

Il podio del Lombardia 2017: Julian Alaphilippe, Vincenzo Nibali e Gianni Moscon (LaPresse, archivio L'Unione sarda)
Il podio del Lombardia 2017: Julian Alaphilippe, Vincenzo Nibali e Gianni Moscon (LaPresse, archivio L'Unione sarda)
Il podio del Lombardia 2017: Julian Alaphilippe, Vincenzo Nibali e Gianni Moscon (LaPresse, archivio L'Unione sarda)

Il futuro

Oggi che Nibali appende la bici al chiodo, l’Italia guarda oltre le sue spalle e ha una sensazione di smarrimento. Il ciclismo azzurro può ancora contare su qualche uomo valido nelle corse di un giorno (Bettiol ha vinto un Fiandre, Trentin ha sfiorato il Mondiale, a parte Colbrelli costretto a smettere dopo la Roubaix), un fenomeno come Filippo Ganna per le crono, ma nelle corse a tappe gli assi stranieri (molti anche giovanissimi) sembrano venire dalla galassia. La maglia rosa e quella gialla che Nibali ha indossato con fierezza, senza mai perdere la propria umiltà, rendendo legittimo il paragone con un grande del passato come Felice Gimondi, hanno poche speranze di trovare presto un nuovo proprietario in Italia. Smarriti, lo ammetteranno anche i tifosi più incontentabili, quelli che non seppero dare il giusto valore, per esempio, al trionfo più importante della carriera di Nibali: il Tour de France del 2014. Si disse che vinse per mancanza di avversari, perché Alberto Contador fu estromesso da una caduta (frattura della tibia), dimenticando, ad esempio, che nella celebre quinta tappa (quella divenuta un libro del sublime suiveur Marco Pastonesi) sul pavè, lo Squalo attaccò e inflisse allo spagnolo di due minuti e mezza di distacco, mentre Chris Froome fu costretto al ritiro. E tra i battuti, a Parigi, vi furono, con il semisconosciuto Jean-Christophe Peraud, Thiabut Pinot, Alejandro Valverde (che scende dalla bici anche lui al Lombardia) e il giovane Romain Bardet, tutta gente che ha frequentato il podio dei grandi giri negli ultimi anni. Qualcosa che l’Italia difficilmente farà per un bel po’. Gli squali del ciclismo adesso sono soltanto stranieri.

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