Nel nome di molte malattie l’orribile ricordo dei medici nazisti
Dalla sindrome di Asperger al test di Clauberg, la scienza rende onore a persone coinvolte
nei piani per la purezza razziale: la comunità ebraica chiede di cambiare la terminologia
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Asperger, per esempio: l’abbiamo sentito nominare tutti, pur senza essere medici abbiamo vagamente capito che identifica qualcosa che somiglia all’autismo ma non lo è, non proprio. E anzi, da qualche tempo – chissà perché – è diventato quasi un modo di dire, si nomina la sindrome di Asperger a casaccio, e senza troppo rispetto per chi ne soffre davvero, come sinonimo generico di disturbo dello sviluppo.
Ma di Hans Asperger, che ha dato il nome alla malattia, non sappiamo niente. Soprattutto ci sfugge il fatto che, secondo quanto emerso da alcune ricerche, il medico austriaco morto nel 1980 collaborò ai programmi abominevoli dell’eugenetica nazista. Ora, per questa ragione, c’è chi chiede che quel nome scompaia dai manuali di medicina. E a dire il vero, non solo il suo.
La protesta riparte
Nello scorso decennio più di una voce, in particolare dalle comunità ebraiche, si è levata per far notare che svariate patologie, tecniche diagnostiche o modalità terapeutiche devono il loro nome a scienziati gravemente compromessi col regime hitleriano e con le sue pratiche terribili. Verso la fine del 2021 alcune iniziative pubbliche, in Italia e non solo, hanno rilanciato il dibattito. Questo genere particolare di cancel culture è meno noto ma forse più antico di quello nato dall’affermazione del Black Lives Matter, il movimento americano che – nel difendere i diritti della popolazione nera – vuole anche rimuovere le statue dei personaggi storici che hanno avuto a che fare con lo schiavismo. Ma forse proprio gli assalti degli ultimi due anni ai monumenti contestati hanno rinfocolato il sentimento di chi non sopporta più di dover nominare, per citare questa o quella malattia, i medici del nazismo.
La sindrome di Asperger è il caso più famoso, ma ce ne sono tanti. Per esempio la granulomatosi di Wegener, una vasculite autoimmune che può creare problemi all’apparato respiratorio, ma anche condurre all’insufficienza renale o alla perdita dell’udito, a seconda degli organi colpiti. Friedrich Wegener arrivò a scoprirla negli stessi anni in cui aveva aderito al partito nazista. Agli inizi di questo secolo, in seguito alla decisione della rivista Lancet di aprire una sezione “Eponimi”, un reumatologo americano e un nefrologo tedesco, Eric L. Matteson e Alexander Woywodt, condussero una lunga ricerca sulle attività di Wegener prevalentemente a Lodz, in Polonia. Scovarono documenti e testimonianze; incrociando i nomi sugli elenchi telefonici arrivarono persino a rintracciare l’ex segretaria di Wegener dal 1941 al 1944. Trovarono indizi, ma non prove certe, della sua partecipazione ad alcune sperimentazioni su esseri umani viventi, oltre che su cadaveri. Di sicuro lui fu uno stretto collaboratore del dottor Martin Staemmler, convinto sostenitore della teoria dell’igiene razziale.
In altri casi, non ci sono più dubbi sul fatto che alcune scoperte importanti, che oggi tramandano il nome dei loro autori nella letteratura scientifica, siano nate da esperimenti su persone internate nei campi di concentramento. Per le donne che si sottopongono a fecondazione artificiale può essere ancora oggi utile il test di Clauberg, elaborato da un ginecologo che collaborò con Himmler per il piano di sterilizzazione di massa destinato a rendere più pura la razza germanica. Si calcola che almeno 300 donne, prigioniere ad Auschwitz e Ravensbruck, siano morte per le sperimentazioni di Carl Clauberg, e molte di più ne abbiano ricavato danni permanenti.
Le cavie umane permisero anche a Julius Reiter di definire la sindrome artritica cui deve il suo nome. Invece per studiare il morbo di Hallervorden-Spatz, una demenza neurodegenerativa, bisognava sezionare dei cervelli; ma pare che i due medici eponimi (Julius Hallervorden, Hugo Spatz) non avessero la pazienza di aspettare quelli dei defunti, e così se ne procurarono a centinaia grazie all’eutanasia. Praticata perlopiù su malati psichici, a loro giudizio sacrificabili.
Eutanasia sui bambini
L’elenco potrebbe continuare a lungo: la malattia di Beck-Ibrahim, quella di Seitelberger e così via. Hans Asperger non è quello accusato delle nefandezze più gravi, perché gli si addebita soprattutto il sostegno morale e scientifico alla teoria della razza: ma c’è anche il terribile sospetto che sapesse, quando inviava dei bambini con ritardi mentali alla clinica Am Spiegelgrund di Vienna, che molti di loro sarebbero stati vittime di eutanasia. E certo non gli fanno onore le lettere di accompagnamento in cui definiva quei bimbi “un peso insopportabile” per le rispettive famiglie.
In Italia, uno dei più attivi promotori della richiesta di non utilizzare più i nomi dei nazisti nella letteratura medica è Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma, e lui stesso medico. La sua battaglia è stata sostenuta qualche anno fa anche da Eugenio Gaudio, all’epoca rettore dell’università La Sapienza. Non sorprende che se ne senta parlare meno, rispetto alla cancel culture relativa alla discriminazione dei neri: abbattere una statua ha un impatto manifestamente più forte rispetto alla modifica di qualche termine scientifico, che resta confinata tra pochi addetti ai lavori. Ma è evidente la comune volontà di non rendere onore a chi calpestò i diritti umani e la libertà delle persone.
E certo, si può sempre obiettare che i problemi concreti sono altri. Cambiare il nome alla sindrome di Asperger non cambierà l’animo di chi ancora cova assurdi sentimenti di antisemitismo, o di odio razziale in generale. Ma se si pensa alle vittime innocenti di quei medici, alle donne, i bambini, gli uomini trattati come cose senza valore; allora non sembra così assurda l’idea di rendere loro almeno un minimo di giustizia, cancellando dalla storia del progresso la memoria dei loro carnefici.