Il titolo diceva così: “La “Joconde”, le célèbre tableau de Léonard de Vinci, è sparito dal Louvre. Come? Da quando? Non si sa”. E poco sotto in neretto, l’amara consolazione: “Ci resta ancora la cornice...”.

 Quel mercoledì 23 agosto 1911, centodieci anni fa, la prima pagina de Le Petit Parisien, il quotidiano della capitale francese con «la più alta tiratura di giornali di tutto il mondo», fu peggio di una tramvata in faccia. Per Parigi e per i francesi. Monna Lisa era sparita. Al suo posto il muro vuoto della sala del Louvre con i quattro ganci nudi in bella vista. Su questo rocambolesco colpo del secolo è stato scritto tanto. Si sa tutto. Il protagonista: Vincenzo Peruggia, imbianchino italiano tutto fare, originario di Dumenza nel varesotto, fece tutto da solo. La data: lunedì (giorno di chiusura del museo) 21 agosto 1911. L’ora: tra le 7.20 e le 8.25 del mattino. L’inchiesta: sotto processo persino Picasso e Apollinaire. Anche il movente: quell’italiano si è sempre difeso asserendo che fu spinto a compiere il blitz dei blitz per una nobile questione di puro patriottismo. Ma è solo sfogliando i giornali dell’epoca che si riesce a ricostruire il senso di stordimento in cui era precipitato il Paese dell’omelette (portata in Francia tra l’altro dalla toscanissima Caterina de Medici). Le Figaro, Le Matin, L’Intransigeant, l’Excelsior, l’Action Française, Il Corriere della Sera giusto per citare alcune testate. Anche L’Unione Sarda. Le Petit Parisien fu insuperabile con quel “Il nous reste le cadre...(Ci resta ancora la cornice)”. Qualcosa che, ironia voluta o meno, sembrava lasciare spazio al sorriso enigmatico di un sarcastico «poteva andare peggio».

LE PETIT PARISIEN Questo fu l’attacco del pezzo di apertura del Le Petit Parisien: «Il vero qualche volta può non essere plausibile: la Gioconda è stata rubata dal museo del Louvre». E poi: «Come questo furto straordinario è stato possibile? Come hanno potuto i suoi autori (perché, è di tutta evidenza che, da solo, un uomo non sarebbe stato capace di una simile impresa) sganciare questo capolavoro inimitabile posto al centro del Salon Carré, portarlo via, disfarsi del vetro e della cornice senza attirare l’attenzione di nessuno? Interrogativi al momento senza risposta». E la Francia della Terza Repubblica si convince da subito che solo un commando ben addestrato avrebbe potuto portare a segno il colpo. Anche perché, ipotizzare il contrario, nel più sicuro museo del mondo, sarebbe stata una vergogna planetaria. Ma, per dirla con l’attacco del pezzo “le vrai peut quelquefois n’être pas vraisemblable”.

La Piramide del Louvre (foto archivio L'Unione Sarda)
La Piramide del Louvre (foto archivio L'Unione Sarda)
La Piramide del Louvre (foto archivio L'Unione Sarda)

IL FURTO Salto di cento anni. Nell’agosto del 2011, il grande Philippe Daverio (il critico e storico dell’arte scomparso nel settembre scorso) raccontò: «Cent’anni fa avveniva il primo furto in un grande museo pubblico. Fra il 20 e il 21 agosto del 1911, al Louvre, un operaio italiano svitava dal vetro, che lui stesso aveva poco tempo prima istallato, una tavola di pioppo di 77 per 53 cm e se la portava tranquillamente via sotto il cappotto». Peruggia, decoratore di poche parole e pochi soldi alloggiava in una umile camera presa in affitto, al civico 5 di via Hôpital-Saint Louis, un quartiere parigino dove risiedeva una numerosa colonia di emigrati italiani. Lui escogitò ogni dettaglio: passò la notte tra la domenica e il lunedì nascosto in un armadio del museo. La mattina completò l’opera. Il lunedì è giorno di chiusura e solo l’indomani «a mezzogiorno e venti», come poi riportò Le Petit Parisien, monsieur Georges Bénédite denunciò a monsieur Louis Lépine, super prefetto della polizia parigina e innovatore della moderna sécurité francese, che «le chef-d’oeuvre de Léonard de Vinci, l’inimitable, la merveilleuse Joconde, avit disparu des collections nationales....». Bénédite era il curatore delle antichità egiziane al Louvre, ma sostituiva monsieur Théophile Homolle, criticato direttore dei Musei nazionali di Francia, in villeggiatura nei Vosgi. Che imbarazzo. Ancora da Le Petit Parisien: il povero funzionario del Louvre così risponde al cronista che lo incalza di domande: «Non posso che confermare la désastreuse nouvelle». Domanda: quando è sparita la Gioconda? «On ne le sait pas exactament». Georges Bénédite spiega che ci sono state varie versioni, molte tra loro contraddittorie, ma «la déposition la plus inéressante est celle du brigadiere Poupardin, un anziano impiegato che gode di tutta la nostra stima», dice. Ecco la versione: Poupardin esce dall’ufficio domenica verso le 17 per riprendere regolarmente il martedì successivo alle 7. Come rientra al Louvre si accorge che l’opera di Leonardo non è al suo posto. Quindi chiede a un suo dipendente: «La Gioconda è stata spostata da quelli dell’ufficio Servizio fotografico?». «Pas que je sache, chef (Non che io sappia, capo)». Poupardin suda freddo. Così si reca all’ufficio stampa del Louvre «mais la Joconde non era lì». Continua la cronaca: il brigadiere più trafelato che mai va da monsieur Galbrun, vicedirettore del Louvre per dirgli che l’opera non è al suo posto e che insieme sono spariti cornice e vetro. A nulla serve contattare la concessionaria dell’Ufficio fotografico del museo. È la “Braun, Clément et Cie” la società legata al fotografo Pierre-Louis Pierson. Gli addetti cadono dalle nuvole. Monsieur Galbrun quindi apre un’inchiesta interna. Sente tutte le guardie al lavoro lunedì e anche alcuni operai. Tutti farfugliano il nulla più assoluto. «A qual punto Galbrun avvisa monsieur Bénédite, il quale non esita a denunciare ufficialmente la sparizione al capo della polizia parigina Louis Lépine». Scene da Ispettore Clouseau.

L’UNIONE SARDA 1911 In contemporanea con Le Petit Parisien, ma dall’altra parte delle Alpi e delle Bocche di Bonifacio e con una circolazione di informazioni che non era certo quella di oggi, la clamorosa notizia del furto trova spazio puntuale anche ne L’Unione del 23 agosto 1911. Titolo: “La Gioconda di Leonardo scomparsa dal Louvre”. Testo (da notare la corrispondenza degli orari e dei fatti): «Parigi 23 - Oggi, a mezzogiorno, si constatò la scomparsa dell’opera “Gioconda” di Leonardo da Vinci esposta nel Salon Carrè del Museo del Louvre. Grande emozione regna nel museo per tale scomparsa. Nel pomeriggio si procedette alla prima inchiesta circa la scomparsa. Il Museo è stato chiuso. Si sono iniziate subito le ricerche all’interno del Museo supponendo che il quadro fosse stato spostato per essere fotografato. Le ricerche procedettero finora senza alcun risultato ma proseguono».

La Gioconda agli Uffizi nel 1913 foto Ansa)
La Gioconda agli Uffizi nel 1913 foto Ansa)
La Gioconda agli Uffizi nel 1913 foto Ansa)

SI RITROVA IL SORRISO Il 13 dicembre 1913, le Figarò titola in prima pagina: “La Joconde retrouvée”. E subito dopo: “Le vol (il furto) était une vendetta!”. Dopo circa 28 mesi di totale silenzio, la Gioconda riappare. Peruggia, che aveva cercato di consegnarla all’Italia (Uffizi a Firenze) tramite l’antiquario italiano Geri sperando di ricavarne qualche soldo, viene arrestato. La Francia esulta. L’Italia pure ma per motivi opposti. I giornali ripercorrono i giorni del furto e, come allora, denunciano l’imbarazzo generale per il flop poliziesco. Le Matin, grazie a una collaborazione con il direttore del Corriere della sera, Luigi Albertini, pubblica un ampio servizio da Firenze: “Le voleur (il ladro) est un ouvrier italien, decoratore, che ha custodito la Joconde chez lui, à Paris, e poi l’ha portata a Firenze per vendicare l’Italia – scrive - dal furto di Napoleone. Peruggia ignorava che in realtà Napoleone non c’entra”. La Francia, o meglio Francesco I, l’aveva generosamente pagata a Leonardo.

TRÈS FACILE La versione testuale di Peruggia riportata dal quotidiano Le Matin è epica: «Per diverso tempo, lavorando al Louvre mi sono soffermato davanti al quadro di Leonardo da Vinci. Ho provato l’emozione di quanto sia travolgente la nostra arte italiana. Ma mi sentivo umiliato nel vedere lì, su suolo straniero, questa opera considerata come bottino di conquista. Ed ero mortificato ogni volta che se ne parlava come di una gloria francese. Così ho pensato che sarebbe stato un nobile gesto restituire all’Italia il grande capolavoro». Da qui il crimine: «Avevo pianificato ogni dettaglio: come sganciare il quadro dal muro, liberarlo dalla cornice e dal vetro, eludere la sorveglianza, abbastanza tollerante con gli operai del museo. Così quel lunedì mattina, dopo aver scambiato qualche parola con alcuni colleghi decoratori, ho approfittato di un momento di distrazione e mi sono allontanato. Sono entrato nella sala dove si trovava l'opera. Ero solo, io e lei. La Gioconda mi sorrideva». Les jeux sont faits. Peruggia ridicolizza poi le più svariate piste seguite dalla polizia parigina che si «concentrò soprattutto sull’ipotesi di un folle vandalo». In realtà Le Figarò, Le Petit Parisien e anche Le Matin scrissero nei giorni successivi al furto che gli inquirenti brancolavano nel totale buio. Tirarono fuori, un complotto dei tedeschi, poi uno scherzo di pessimo gusto con la complicità di alcuni giornali. Un gesto per vendicarsi della direzione del Louvre, oppure un affare per farci soldi. Persino il folle innamorato di Monna Lisa. «Ma nessuno - commenta Peruggia nell’intervista al Corsera del 13 dicembre 1913 e riportata da Le Matin - nessuno aveva pensato all’ipotesi più semplice. Quella che il furto poteva essere stato commesso “par un pauvre diable comme moi”, che certamente sperava di ottenerne un profitto, ma soprattutto era spinto e animato da un grandissimo rispetto per quest’opera immortale». Quel povero diavolo fu processato il 4 e 5 giugno 1914 a Firenze. Con lui si schierò l’opinione pubblica non solo fiorentina. Fu condannato a un anno e quindici giorni di prigione. A luglio, in appello la pena fu ridotta a sette mesi. Vincenzo Peruggia fu salutato come un eroe nazionale dagli universitari fiorentini. Fu vera gloria? Mah, no. Soddisfazione, certamente. Quella stessa rivincita esistenziale velata nelle parole di Paolo Conte per cui «i francesi ci rispettano/che le balle ancora gli girano» (Bartali, 1978).

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