C’è “un tempo da lupi” e c’è l’augurio di entrare nella sua bocca quando si deve affrontare una prova difficile. Bocche di lupo sono un delicato fiore ma anche le finestre delle celle dei vecchi istituti carcerari, aperte solo su uno spicchio di cielo. C’è poi il lupo mannaro della fantasia popolare, il lupo di mare e quello solitario. Ma soprattutto ci sono loro, i lupi veri con i canini affilati e grandi occhi, tornati a popolare la penisola e quasi tutto l’arco alpino. Lo racconta un curioso e ricco libro, scritto da Luca Giunti, guardiaparco delle aree protette delle Alpi Cozie, in provincia di Torino, naturalista e fotografo, intitolato “Le conseguenze del ritorno. Storie, ricerche, pericoli e immaginario del lupo in Italia” (Edizioni Alegre) in cui l’autore spiega le ragioni del perché il lupo abbia ripreso pieno possesso del suo antico regno.

Sono centosettanta pagine in cui a ben guardare si parla di lupi e di altri animali, ma soprattutto si parla dell’uomo, del suo mutevole rapporto con la natura, specchio fedele di tutto, dal salvifico legame con l’ambiente e con chi lo abita, fino alle leggende e alle paure. Trasferite in cose spicciole come le figurine stampate dalla casa produttrice del dado Liebig (dal 1872 al 1975), nelle quali a proposito del lupo si leggeva: «In tempi non lontani abbondava in tutta l’Europa, e anche nelle Alpi e negli Appennini ma ora è scomparso da tutti i paesi civili. Ha sguardo obliquo, espressione torva e coda pendula». Il Regio Decreto del 1939 lo inseriva tra gli “animali nocivi” insieme a volpi, orsi, aquile, falchi, civette e gufi. Era sparabile a vista senza limitazioni; fino al 1950 lo Stato pagava una taglia per ogni lupo ucciso, e fino al 1971 regalava flaconi di stricnina e cianuro per eliminarli definitivamente. Oggi, udite, udite, il “il lupo cattivo” è protetto al pari della foca monaca e dello stambecco.

Dunque, i lupi sono tornati. E il fatto importante è che non li abbiamo importati da altre nazioni, come è invece accaduto, per almeno tre decenni, per cervi, caprioli e cinghiali, con conseguenze non indifferenti sull’equilibrio ambientale. Nulla di tutto questo. Il centinaio di lupi, sopravvissuto 50 anni fa a trappole, decreti, cacciatori e veleni si è lentamente ripreso il suo territorio. Oggi sono duemila. La ragione? È nelle prime pagine. «Dopo la Seconda guerra mondiale la ricostruzione, le fabbriche e il boom economico hanno risucchiato nei centri urbani della pianura milioni di lavoratori. (…) Le montagne e le colline di tutta Italia sono state abbandonate quasi d’un colpo. I campi e i pascoli, per secoli mantenuti puliti da arbusti e alberi, sono stati riconquistati dai boschi. Non da alberi belli e alti, ma da piante più veloci a crescere e colonizzare: rovi, cespugli, noccioli e frassini, salici e ontani. Poi aceri, faggi, betulle, ciliegi e castagni rinselvatichiti». E i lupi? Quel piccolo drappello che ha resistito nelle zone più aspre, Maiella, Gran Sasso, Sila (lo dice un censimento del 1970), lentamente ha messo in campo la sua più importante caratteristica genetica: la dispersione. Un figlio di lupo non resta mai con i genitori, ma va alla scoperta del mondo fino a che non trova una compagna e mette su famiglia. Così lentamente, dalla metà degli anni Ottanta, si sono riappropriati dei nuovi, selvatici boschi, hanno ritrovato prede con cui sfamarsi. Sono tornati a essere lupi. Anche il nostro sguardo su di loro è cambiato, al punto che Giunti dice «vorremmo che i lupi avessero i canini morbidi», però restiamo sempre in bilico tra fascinazione e inquietudine.

“Le conseguenze del ritorno” è il frutto di un lavoro di anni in cui Giunti ha studiato gli spostamenti, analizzato i comportamenti dei lupi, catalogato storie e leggende che li riguardano. Non mancano curiosità, come l’esergo dell’ultimo capitolo intitolato “Maglie e magie”. È di Vladimir Nabokov e dice: “La letteratura è nata il giorno in cui un ragazzo è corso in paese gridando al lupo, al lupo e dietro di lui non c’era alcun lupo”.

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