Forse ha ragione Paolo De Angelis, che l’ha conosciuto da grande, dopo esserne stato tifoso: Pietro Mennea era un personaggio scomodo. Ma oggi, a dieci anni dalla morte, arrivata assieme alla primavera del 2013, quando il barlettano aveva appena a sessant’anni, è evidente come tutto sia cambiato. Stadi, premi, gare, prestissimo un museo a Roma, allo Stadio dei Marmi a lui intitolato: quante cose gli sono state dedicate! Campione amato, avvocato e commercialista rispettato, politico temuto e isolato per quella incrollabile rettitudine che aveva scelto di portare come propria bandiera. Senza compromessi, neppure quando si trattò di osteggiare l’Olimpiade (lui che ne aveva disputate cinque”) a Roma, un suicidio economico per l’Italia. “Io lo paragono a Falcone e Borsellino, per quanto assurdo possa sembrare”, dice appunto De Angelis, magistrato e docente universitario, ex schermidore, “perché come loro, anche lui nel suo campo fu osteggiato e ostacolato in vita. Erano considerati, nel loro settore, strani, pazzoidi, narcisisti. Erano rivoluzionari, praticavano la fiducia nel genere umano. Per questo erano isolati. Hanno saputo sopportare l’isolamento, la derisione. Mennea era considerato pazzo però è arrivato in cima al mondo. Forse i pazzi erano gli altri: lui ha saputo combattere per i propri valori”.

Pietro Mennea a Città del Messico con Primo Nebiolo e il giornalista Gianni Minà dopo il record dei 200 m nel 1979( Ansa)
Pietro Mennea a Città del Messico con Primo Nebiolo e il giornalista Gianni Minà dopo il record dei 200 m nel 1979( Ansa)
Pietro Mennea a Città del Messico con Primo Nebiolo e il giornalista Gianni Minà dopo il record dei 200 m nel 1979( Ansa)

Oltre la sofferenza

Già i valori. Questo è ciò che davvero ci resta di Mennea, anche più di quel fantascientifico 19”72 sui 200 metri che dal 1979 gli consente di galleggiare, come uno di quei trucchi computerizzati della tv, tra i campioni di oggi, di un atletica che ha fatto mille progressi, ma quel primato europeo in 43 anni non l’ha superato. Ci resta la sua lezione: di sport, di stile, di vita. Ci resta il suo esempio: incorrotto. Ci resta il suo ricordo di atleta inflessibile, infaticabile e sublime, di compagno di squadra, e successivamente di amico e marito, molto meno “musone” di quanto si pretenda di tramandare. Di professionista e saggista rigoroso, dall’alto delle sue quattro lauree, ma anche, negli ultimi tempi, di conferenziere autoironico, a volte spassoso. Il messaggio di Pietro, sintetizza Gianfranco Dotta, tecnico anche della Nazionale azzurra, che crebbe in scia al leggendario professor Vittori, “non sono i suoi risultati, ma la sua filosofia: non mollare mai, soffri perché attraverso l’impegno e la sofferenza avrai le tue soddisfazioni”.

Un giovane Pietro Mennea in un'immagine d'archivio (Ansa)
Un giovane Pietro Mennea in un'immagine d'archivio (Ansa)
Un giovane Pietro Mennea in un'immagine d'archivio (Ansa)

La corsa è musica

Dieci anni dopo la sua resa, dopo aver combattuto la malattia senza mai rivelarla al mondo, perché non sembrasse e non fosse per lui un alibi, Mennea ci appare come un gigante, mentre rianalizziamo una vita breve ma che sembrano tre, per quanto è riuscito a fare. A scrivere, per esempio. Il suo ultimo libro, un’analisi del fenomeno Giamaica, non è mai stato pubblicato, anche se lui l’aveva praticamente ultimato. A curarlo, come tutti gli altri, era stato Angelo Cherchi, che in gioventù l’aveva sfidato e perfino battuto a un campionato italiano, di cui poi era diventato amico. “Pietro è stato di più, un fratello”, racconta, ed è come se si sentisse il rumore delle cinghie di quei vecchi proiettori super8 e partissero delle immagini a colori pastello, “la sua corsa sgraziata era compensata dalla straordinaria consapevolezza del ritmo. Per lui la corsa era musica”. Raccontava di aver prediletto il rock duro per gli allenamenti, ma “arrivava ai blocchi di partenza canticchiando la canzone di Orzowei e si immergeva nella sua dimensione parallela. Le sue doti più profonde erano spirituali”, conclude Cherchi, che parlò con lui quattro giorni prima della morte.

L'incontro all'Istituto "Martini" di Cagliari in ricordo di Pietro Mennea (foto concessa)
L'incontro all'Istituto "Martini" di Cagliari in ricordo di Pietro Mennea (foto concessa)
L'incontro all'Istituto "Martini" di Cagliari in ricordo di Pietro Mennea (foto concessa)

Quattro amici

Paolo, Gianfranco, Angelo. E Pietro. Loro erano i “quattro moschettieri” che andavano in giro per le scuole della Sardegna per una “predicazione laica”. Per insegnare, magari con la scusa della presentazione di uno dei libri di Mennea, che lo sport è scuola di vita, che insegna le regole e non ammette imbrogli. Il doping è stato il nemico giurato di Mennea, anche da parlamentare europeo. Partiva in vantaggio nelle sue affermazioni, perché poteva corroborarle con l’esempio. E sapeva parlare e scrivere. Ogni 21 marzo (ma la pandemia non l’ha reso possibile sempre), i tre “moschettieri” superstiti lo ricordano come merita, come “uno che dovrebbe essere nel piccolo Pantheon personale di ciascuno di noi”, per usare le parole di De Angelis, che aprono la strada a un concetto molto importante, quello della “responsabilità sociale” del campione che, come spiega Manuela Olivieri Mennea, moglie e collega avvocata di Pietro, “deve essere un esempio per chi lo ammira, evitando le scorciatoie come il doping”. Lei sa che la “Freccia del Sud” veniva volentieri “in Sardegna a parlare con i ragazzi. Ho trovato un filmato di un incontro. Quando parlava riusciva a trascinare i giovani a sognare e loro lo ascoltavano incantati. Lui ci insegna che i sogni possono essere realizzati. Come ha fatto lui”.

P.S. Il 21 marzo 2023, nel decennale della morte, Pietro Mennea è stato ricordato a Cagliari nell’aula magna dell’Istituto Tecnico Martini, per iniziativa di Manuela Caddeo, ex atleta, ora insegnante. Ancora una volta sono state proiettate le immagini del film realizzato dalla Fondazione Pietro Mennea per ricordare ciò che è stato Mennea. Un fuoriclasse della vita.

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