In Italia non abbiamo sempre un atteggiamento coerente nei confronti delle lingue. Da un lato, ammalati cronici di purismo, ci immalinconiamo per tutte le parole inglesi che mese dopo mese vediamo entrare nel nostro lessico quotidiano; dall’altro guardiamo con sufficienza i dialetti come se fossero effettivamente idiomi figli di un dio minore e prendiamo atto a ciglio asciutto dell’estinzione di molte altre lingue, come se fossero esseri viventi che – con tutto l’affetto – prima o poi si sa che devono spirare.

Il punto di vista di uno studioso, in questo come in altri campi, è inevitabilmente molto diverso. Meno ideologico, e per certi versi sorprendente. Ugo Cardinale, già docente di linguistica generale all’Università di Trieste, la scorsa estate ha garbatamente spiazzato gli spettatori del festival di giornalismo “Liquida” di Codrongianos parlando di neutro, di politiche linguistiche e dei demoni che si agitano sotto il lessico della nostra informazione. Davanti all’allarme rosso per il rischio di estinzione di molti, moltissimi idiomi del pianeta non si scompone. Ma neppure si rifugia nel fatalismo. 

L’atlante Unesco delle lingue in pericolo è in aggiornamento - così proclama un annuncio sul sito internet - ma nella sua ultima versione dava il 40 per cento delle lingue del mondo a rischio estinzione. Professore, le sembra una stima plausibile o c'è qualche elemento ulteriore di cui dobbiamo tenere conto?

L’allarme Unesco, manifestato fin dagli anni novanta, sul rischio di sparizione delle lingue minoritarie a ritmi accelerati -analogo alle preoccupazioni ambientaliste per la minaccia di estinzione di molte specie, animali e vegetali, che mette in pericolo la salvaguardia della biodiversità- ha mobilitato certamente l’attenzione degli studiosi e la volontà di arginarne le conseguenze. L’Unesco è arrivato a redigere la red list delle lingue che corrono seri percoli, non limitandosi ad un intento museale, spingendo invece gli amanti delle lingue a favorire lo studio di quelle più a rischio e a creare raccolte di video degli ultimi parlanti, come quelle del nuovo Wikitongues, che permettano di consegnarle ai posteri. Ma tutte queste operazioni non potranno evitare il processo in atto che però non è soltanto fisiologico ed è stato certamente accelerato dalla globalizzazione.

Da un punto di vista scientifico è una catastrofe o un fenomeno fisiologico?

Intanto vorrei fare una premessa. Come si spiega la grande dispersione delle lingue sul pianeta? Il racconto biblico della Torre di Babele la spiegherebbe come effetto della condanna di un Dio geloso e indurrebbe a inseguire, come hanno fatto molti autori del Settecento studiati da Umberto Eco, il mito della lingua perfetta, della lingua adamitica perduta, e a ricercare la ricomposizione delle lingue, viste “come frammenti di un vaso rotto”, in una. Era il sogno utopico di Walter Benjamin nell’Angelus Novus. Vista da questa prospettiva, la tensione verso l’unità e la semplificazione non sarebbe un ostacolo, ma una via verso la comprensione universale. Ma questo mito della lingua perfetta, che avrebbe quasi i caratteri di un algoritmo e non terrebbe conto della ricchezza connotativa delle diverse lingue, è smentito da altri filosofi, come Paul Ricoeur, che ha dato un’altra interpretazione dei passi biblici, nella direzione opposta. Quella di un apprezzamento del dono della pluralità delle lingue, mai perfettamente coincidenti, e quindi fonti di arricchimento, che impegna gli uomini in un arduo compito etico: quello della traduzione, oscillante continuamente tra accoglienza e assimilazione. Un arduo impegno anche a salvarne il più possibile perché nessuna è la copia isomorfa dell’altra e la perdita di una è un impoverimento per tutti.

Detto questo, però, non possiamo non constatare che l’evoluzione storica ha visto nel passato l’estinzione di alcune lingue, e non solo per motivi fisiologici. Le lingue non si esauriscono come in un ciclo naturale. L’estinzione dipende dal venir meno dei parlanti che le usano. E i parlanti rinunciano a usarle se ci sono spinte molto forti nella società per la sostituzione linguistica. È il caso delle politiche linguistiche dissuasive nei confronti dei dialetti, fatte in passato anche dai primi governi italiani, e ancora, ad esempio, della tendenza della seconda generazione dei migranti italiani in America ad acquisire una competenza solo passiva della lingua dei genitori, spinti a privilegiare la lingua dominante anche per facilitare l’integrazione. È il caso del gaelico dell’Irlanda, travolto dall’inglese, lingua egemone; tornato però in uso grazie alla politica di salvaguardia messa in atto dal nuovo governo repubblicano.

Per Gramsci una lingua è “una concezione integrale del mondo”. Possiamo dedurne che culturalmente sta morendo la metà dei mondi possibili o sarebbe una forzatura?

Forse la risposta affermativa sarebbe troppo drastica perché le lingue non sono monadi impermeabili, anzi sono in contatto e aperte agli apporti, dall’esterno e dall’interno, di altre lingue e anche dei dialetti, ma certamente il venir meno di una lingua può determinare anche la scomparsa di numerose conoscenze specifiche o di visioni sfaccettate del mondo e può creare anche in alcuni casi problemi di anomia, quando l’apprendimento malfermo della lingua egemone passa attraverso lo sradicamento della lingua materna, senza  il passaggio graduale attraverso una competenza plurilingue.

Perché ci sembra più grave che la guerra in Siria metta a rischio l’aramaico rispetto all’estinzione di un idioma della foresta amazzonica, spento insieme al suo ultimo parlante?

Al di là di ogni giudizio di valore sulle due lingue, che meritano entrambe certamente un riconoscimento di pari dignità, la preoccupazione per il rischio di estinzione dell’aramaico non è solo la preoccupazione per una lingua parlata, ma anche per una lingua di cultura, con un lascito letterario e amministrativo millenario che risale all’impero degli Achemenidi e alle comunità cristiane. Ignorare quell’alfabeto e quella scrittura, oltre che quella parlata, distruggerebbe la possibilità di conoscenza di un patrimonio culturale che in passato era stato acquisito; un impoverimento simile a quello che denuncia Lucio Russo a proposito delle conoscenze tecnico-scientifiche antecedenti che si erano perdute con la conquista romana.

Colpisce che tra le lingue a rischio ci sia anche il romancio, che pure in Svizzera ha piena dignità anche costituzionale. Esiste una leva politica capace di salvare una lingua o sono pie illusioni, e nessun decisore può governare le tendenze dei parlanti?

Il riconoscimento ufficiale è certamente un aiuto istituzionale alla salvaguardia di una lingua, ma la sopravvivenza di una lingua dipende soprattutto dall’uso e dalla pratica dei parlanti. Nell’area dei Grigioni, dove è parlato il romancio, la necessità di far uso del tedesco e dell’italiano nelle aree limitrofe e nei luoghi di lavoro, o dell’inglese, lingua franca internazionale, rischia di farne regredire la pratica. Solo l’impegno della scuola a mantenerlo vivo, attraverso un insegnamento che pratichi il plurilinguismo, potrebbe invertire la tendenza, come è avvenuto per il gaelico, che è tornato in auge grazie alla volontà politica delle istituzioni e all’impegno pedagogico. 

C'è chi dice, forse sbrigativamente, che nel giro di tre secoli nel mondo ci saranno solo tre lingue: inglese, cinese e spagnolo. Saranno i dialetti a salvare un minimo di biodiversità linguistica?

Difficile fare previsioni a distanza di tre secoli. Non è facile prevedere le dinamiche geopolitiche ed economiche che spesso determinano i destini delle lingue. La previsione indicata sopravvaluta il ruolo dell’Occidente e sembra dimenticare il possibile primato anche numerico del mondo asiatico (Cina, ma anche India). Certamente potranno anche sopravvivere forme ibride e contaminazioni come lo spanglish. E dipenderà dall’attaccamento della comunità alle sue tradizioni, alla propria lingua e cultura se tra i giovani riusciranno a sopravvivere i dialetti come lingue da cui costruire la propria identità. Certo la globalizzazione e l’egemonia dell’inglese semplificato dei social sono state deleterie per questo scopo.

A proposito di dialetti: è un termine che scientificamente ha senso o è solo un modo per far capire che un certo idioma ha meno prestigio di un altro? In sostanza: la vecchia massima di Weinreich, una lingua è un dialetto più un esercito e una marina, funziona sempre?

La vecchia formula sbrigativa dice parzialmente il vero. Dal punto di vista scientifico e strettamente linguistico non c’è nessuna differenza tra lingua e dialetto. Entrambi sono sistemi linguistici soggetti alle stesse regole: il dialetto non è, come si diceva a volte con un pregiudizio diffuso, una lingua imperfetta, imprecisa, di carattere popolare, ma è una lingua a tutti gli effetti, di ambito geografico più limitato rispetto alla lingua che per ragioni storico-politiche ha una diffusione più ampia e ha acquisito un ruolo dominante riconosciuto ufficialmente. La differenza non riguarda il sistema, ma le logiche socio-economiche che stanno alla base dell’egemonia. Lo dimostra il fatto che alla base dell’italiano c’è un dialetto, elevato a lingua nazionale.

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