Ospite del carcere di Rossano in provincia di Cosenza dopo l’arresto in Bolivia nel 2019 e un breve passaggio nell’istituto penitenziario di Massama ad Oristano, Cesare Battisti – abituatosi a stare più comodo nel corso dei suoi 37 anni di latitanza – ha avuto modo di recente di far ritenere «micidiale» l’attuale trattamento: è «recluso in isolamento di fatto coi terroristi islamici», ha sottolineato l’avvocato Davide Steccanella. Situazione che ha spinto il legale ad auspicare che «la Francia non estradi» i nove ex terroristi fermati lo scorso 28 aprile per decisione del presidente Macron: «Far scontare pene 50 o 40 anni dopo i fatti a persone ormai anziane, che hanno preso parte a un periodo storico ben preciso che ha segnato il nostro Paese e che da allora erano riparati in Francia, non ha alcun senso se non quello di una vendetta di uno Stato che non ha mai saputo fare i conti con la propria storia. È un trattamento riservato in passato ai criminali nazisti».

La confessione

Eppure il suo cliente solo dopo l’arresto ha voluto ammettere le proprie responsabilità su rapine, sparatorie e omicidi (quattro) che gli sono costati l’ergastolo. Prima di tornare in Italia continuava a negare una qualunque responsabilità. Poi davanti al pm Alberto Nobili di Milano il 23 marzo 2019 in Sardegna ha cominciato a raccontare le imprese criminali e il contesto storico nel quale aveva agito. Entrava e usciva dalla galera e in uno dei periodi in cui era dentro aveva fatto conoscenza con Arrigo Cavallina, ideologo dei Pac (proletari armati per il comunismo) scarcerato nel 1977: «Andai a trovarlo a Verona. Ero già ricercato per una rapina commessa a Latina in un ufficio postale, per questo decisi di entrare in clandestinità e passare alla lotta armata con i Pac. All’inizio con loro ho commesso varie rapine a scopo di finanziamento, vivevo un po’ a Verona, un po’ a Milano e in altri posti della Lombardia».

Il Palazzo di giustizia di Milano (foto\u00A0Ansa)
Il Palazzo di giustizia di Milano (foto\u00A0Ansa)
Il Palazzo di giustizia di Milano (foto Ansa)

I Pac «erano costituiti da altre formazioni armate e da fuoriusciti critici dell’organizzazione di Brigate rosse, Nap e altri di cui rifiutavano la logica verticistica del partito armato. I Pac prevedevano una struttura orizzontale priva di vertici ed erano composti da circa 40 persone. Alcune loro rivendicazioni furono effettuate non da soggetti inseriti stabilmente nell’organizzazione ma che comunque aderivano all’ideologia. Alcuni commettevano singoli reati per poi non prendere più parte all’organizzazione».

Nessun nome

La prima azione di Battisti «contro persone» avviene «a Milano». Nel mirino finisce il medico «Diego Fava, su segnalazione di compagni che operavano nel collettivo dell’Alfa Romeo per ragioni che non ricordo con precisione». L’ex latitante spara assieme «all’altra persona indicata nella sentenza», della quale non fa il nome «sia per un fatto personale sia perché sarebbe inutile in quanto relativo a soggetti già identificati e condannati». Insomma, negli interrogatori Battisti fa presente di voler parlare «solo delle mie azioni più eclatanti, tralasciando le varie rapine di autofinanziamento che continuavamo a commettere». Dopo l’esordio armato si passa <al ferimento di un agente di custodia a Verona, credo si chiamasse Nigro», Antonio, «era stato segnalato da un collettivo di territorio perché molto duro nel carcere. Era indicato come facente parte di una squadra di agenti di custodia picchiatori. Partecipai all’azione a titolo di copertura ma non sparai».

Il passo successivo è ammettere «le mie responsabilità per i quattro omicidi che mi sono stati addebitati». Il primo è quello «del maresciallo Santoro, capo delle guardie carcerarie di Udine. L’indicazione venne dai compagni del Veneto per le torture commesse nel carcere a carico di detenuti politici. Partecipai esplodendo solo io i colpi di arma da fuoco che causarono la sua morte. Non so indicare per quale motivo esatto si decise di ucciderlo, a differenza di quanto fu fatto per Nigro, in quanto ero appena giunto nel gruppo armato e l’azione era stata già decisa. Per quel che posso dire, ho appreso che si era comportato in modo molto più violento di Nigro». In ogni caso «la ricostruzione» contenuta nella sentenza per Santoro «è esatta».

Pierluigi Torregiani, il gioielliere ucciso nel '79 dai Pac (foto Ansa)
Pierluigi Torregiani, il gioielliere ucciso nel '79 dai Pac (foto Ansa)
Pierluigi Torregiani, il gioielliere ucciso nel '79 dai Pac (foto Ansa)

I delitti

Per gli omicidi Sabbadin e Torregiani, «commessi lo stesso giorno uno nel Veneto e uno a Milano, ho partecipato al secondo col ruolo di copertura dell’azione. Sia Torregiani sia Sabbadin erano commercianti responsabili ai nostri occhi di aver ucciso due rapinatori». Torregiani aveva subito un tentativo di rapina il 22 gennaio 1979 e la sua reazione scatenò una sparatoria nella quale rimase ucciso un bandito. Per vendetta neanche un mese dopo il gioielliere fu preso di mira e nell’agguato fu colpito il figlio Alberto, rimasto paraplegico. «Li chiamavamo miliziani perché si erano armati e avevano ucciso un rapinatore e rivendicavano questo atteggiamento per noi inaccettabile. Dal nostro punto di vista meritavano una punizione. Nella nostra ottica i rapinatori uccisi erano proletari che cercavano di riappropriarsi di quanto tolto loro dal capitalismo. Sicuramente nulla cambia per la mia posizione, ma per la verità storica tengo a dire che nei confronti di Torregiani e di Sabbadin la maggioranza dei Pac, me compreso, aveva deciso di procedere per ragioni politiche al solo ferimento. Ritenevamo che la morte andasse oltre la nostra politica poiché nei due casi specifici i Pac si sarebbero messi sullo stesso piano dei due miliziani, per cui la maggioranza di noi voleva punirli ma non ucciderli: così sarebbe stato più evidente il motivo dell’azione di chi ritenevamo cittadino che si fa Stato proprio per non metterci al loro stesso livello, quello di giustizieri. Loro avevano ucciso, noi volevamo mostrare un intento punitivo senza equipararci a loro. Tuttavia accadde che Torregiani, come appresi dai miei compagni, reagì sparando e pertanto il volume di fuoco nei suoi confronti fu tale da determinarne la morte. Anche per Sabbadin, azione alla quale partecipai come copertura, la maggioranza del gruppo aveva deciso di procedere al solo ferimento. C’erano state discussioni anche accese sulla loro sorte, ma alla fine era prevalsa la linea che io e altri avevamo sostenuto: ferire e non uccidere. Però la persona incaricata dell’azione lo uccise. Quando qualcuno del gruppo decise di collaborare con la giustizia, io latitante all’estero, per questi due omicidi accusò me di essere stato il più deciso sostenitore della morte di queste persone così da alleviare in qualche modo la responsabilità di chi era già detenuto. Questa precisazione non cambia nulla circa la mia posizione, per anni sono stato massacrato dalla stampa e dall’opinione pubblica quale principale responsabile della morte di Torregiani e Sabbadin».

Cesare Battisti (foto\u00A0EPA)
Cesare Battisti (foto\u00A0EPA)
Cesare Battisti (foto EPA)

Per l’assassinio di Andrea Campagna, «cui ho partecipato sparando, l’indicazione è stata data dal collettivo di Zina sud. Campagna era ritenuto uno dei principali responsabili di una retata di compagni del collettivo Barona poi torturati in caserma. Lui conosceva bene i soggetti del collettivo Barona in quanto il suocero abitava in quella zona. Per lui fu decisa la morte nel corso di una riunione dei Pac e io mi sono reso disponibile all’azione. Non ho mai ricevuto personalmente alcuna richiesta di eliminazione di soggetti come Campagna e Santoro, che furono uccisi, e Torregiani e Sabbadin, per i quali avevo optato per il solo ferimento. Non conosco i nomi di chi nei collettivi del territorio chiese il nostro intervento, non per omertà ma perché essendo allora clandestino non era opportuno avessi rapporti coi militanti che vivevano pubblicamente il territorio. Non voglio coprire nessuno, dico come erano le cose».

«Non sono un killer»

Quando il pm sottolinea la «freddezza» di Battisti nel ricordare questi episodi, l’ergastolano spiega: «Non sono un killer ma sono stato una persona che in quell’epoca ha creduto nelle cose che abbiamo fatto, quindi la mia determinazione era data da un movente ideologico e non da un temperamento feroce. Quando credi in una cosa sei deciso e determinato. A ripensarci oggi provo una sensazione di disagio, ma all’epoca era così».

Gli intellettuali

Gli inquirenti gli chiedono se in questi 37 anni di latitanza abbia avuto «supporto da italiani o stranieri che l’abbiano favorito a eludere le ricerche», e Battisti conferma di essere stato «sostenuto da partiti e gruppi di intellettuali, soprattutto nel mondo editoriale, come sostegno ideologico e logistico. Tra gli italiani nessuno mi ha mai aiutato o ha favorito la mia latitanza. Sono stato sostenuto per ragioni ideologiche e di solidarietà e posso dire che non so se queste persone si siano mai chieste se fossi effettivamente responsabile dei reati per cui sono stato condannato. Ho sempre professato la mia innocenza e ciascuno è stato libero di interpretare questa mia proclamazione come meglio ha creduto, ma posso dire che per molti di questi il problema non si poneva, andava semplicemente sostenuta la mia ideologia dell’epoca. Sono stato appoggiato per una pluralità di ragioni che vanno dalla mia proclamazione di innocenza alla non concepibilità, in molti Paesi esteri, di una condanna in contumacia. Inoltre cercavo di dare di me l’idea di un combattente della libertà, come mi sentivo per i fatti degli anni ’70. Gli appoggi di cui ho goduto sono stati il più delle volte di carattere politico proprio per i motivi che ho detto, rafforzati dal fatto che ero ritenuto un intellettuale, scrivevo libri, ero insomma una persona ideologicamente motivata, per cui nessuno sentiva il bisogno di agire contro di me. Questo mio ruolo di intellettuale era anche una precisa garanzia che, a prescindere dal mio passato, ero ormai una persona non più da ritenersi pericolosa e quindi, anche per questo, nessuno mi ha dato la caccia. Per esempio, ricordo che quando fui arrestato in Francia nel 2004 per l’estradizione, e restai in carcere 19 giorni, ci furono molte manifestazioni di piazza in mio favore perché, per 14 anni, avevo operato in Francia a livello sociale e culturale ed ero riconosciuto per le mie battaglie contro degrado ed emarginazione». Però nessun appoggio logistico o finanziario da italiani per favorire la latitanza. «Lo escludo. Quando ero in Brasile mi furono anche contestati da un giudice rapporti coi servizi segreti francesi che mi avrebbero favorito. Pura fantasia».

Sull’utilizzo di falsi documenti, «quando sono andato via dall’Italia li ho avuto da un amico di famiglia. Quando sono andato via dalla Francia li avevo falsi francesi, credo provenissero da rifugiati spagnoli della guerra civile dei tempi di Franco. Dall’Italia mai ho ricevuto alcun falso documento tranne quello di cui ho parlato prima». Insomma, «ne ho avuto solo due falsi e per i brevi periodi di fuga dall’Italia e dalla Francia, mentre in tutte le altre occasioni ho utilizzato i miei veri documenti».

(3 – continua)

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