Prosegue la ricostruzione a puntate della vicenda giudiziaria che aveva portato un innocente a scontare oltre trent’anni di galera per un triplice omicidio che non aveva commesso: in questo capitolo della storia il passaggio in Corte d’Appello, quando Beniamino Zuncheddu si vide confermare la condanna. 

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Come il processo di primo grado, anche quello d’appello è molto rapido e arriva a sentenza il 16 giugno 1992. Dalla strage è trascorso neanche un anno e mezzo.

La vicenda

Riassunta la vicenda nelle singole tappe (i delitti l’8 gennaio 1991, la preoccupazione dei parenti di Gesuino e Giuseppe Fadda e di Ignazio Pusceddu per il loro mancato ritorno a casa quella notte, la scoperta dei cadaveri a Cuile is Coccus sulle montagne di Sinnai la mattina seguente, la chiamata dei soccorsi, l’avvio delle indagini, le testimonianze, l’arresto il 28 febbraio di Beniamino Zuncheddu quale presunto responsabile, la decisione del sospettato di non rispondere al pm, la scelta di farlo il 9 aprile, l’alibi, l’incidente probatorio il 13 e 14 marzo, il rinvio a giudizio il 9 luglio, il via al processo il 9 ottobre, la condanna all’ergastolo in Assise l’8 novembre), i giudici entrano nel merito delle accuse e delle tesi difensive. E, contrariamente a quel che spera l’imputato, non si discostano dalle convinzioni dei colleghi.

L'avvocato Luigi Concas
L'avvocato Luigi Concas
L'avvocato Luigi Concas
L'avvocato Francesco Onnis
L'avvocato Francesco Onnis
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La difesa

Secondo gli avvocati difensori l’orario dell’omicidio fornito dal superstite Luigi Pinna (le 18,30) sarebbe «smentito» dal fatto che il ragazzo dovesse andare in palestra a Maracalagonis alle 19, non era pensabile arrivarci con un ritardo di 30 minuti; inoltre la scomparsa del fucile semi automatico detenuto dalla famiglia Fadda (proprietaria dell’ovile della strage a 700 metri di altitudine sulle montagne a ridosso di Burcei) e l’utilizzo, per commettere i delitti, di cartucce di marca Fiocchi uguali a quelle trovate intorno ai cadaveri spingevano a ritenere che gli omicidi fossero stati commessi con quell’arma da una persona che sapeva dove fosse nascosta e che dunque conosceva le vittime essendo riuscita ad avvicinarsi a Gesuino Fadda (il capo famiglia) senza allarmarlo. Ancora: non c’era la prova che Zuncheddu avesse frequentato quei luoghi dopo il 1989 (e nell’estate 1900 vi era andato solo in alcune occasioni per dare da mangiare a due o tre maialetti del padre); in tutta la vicenda era presente un solo episodio minaccioso addebitabile a Zuncheddu, quella frase a lui attribuita e rivolta a Giuseppe Fadda (figlio di Gesuino) «se facessero a voi quel che voi fate alle vacche…», risultata decisiva nella condanna di primo grado. Inoltre il superstite e il pastore Paolo Melis (in passato alle dipendenze dei Fadda) avevano modificato la loro versione originaria (il primo sulla presenza o meno di una calza da donna sul volto del killer, che inizialmente c’era e poi scompare rendendo riconoscibile il killer; il secondo su come fosse stata pronunciata quella minaccia e chi ne fosse stato autore, passando dal non aver assistito all’episodio all’averlo visto di persona e dal non sapere chi fosse il ragazzo che aveva litigato con Fadda al riconoscerlo in Zuncheddu) solo dopo l’intervento dell’ispettore della Criminalpol della polizia Mario Uda, il quale pur convinto della responsabilità del sospettato aveva indotto gli altri a farne il nome. Infine c’erano stati errori nel calcolo del tempo necessario a percorrere il tragitto Burcei-ovile e a compiere gli omicidi, ed erano stati «screditati ingiustamente» i testimoni che avevano fornito un alibi al pastore condannato (erano stati ritenuti falsi).

Beniamino Zuncheddu in Corte d'assise
Beniamino Zuncheddu in Corte d'assise
Beniamino Zuncheddu in Corte d'assise

La versione dell’imputato 

L’imputato conferma la versione fornita in primo grado. Il giorno dell’eccidio era a Perdu Noru, località più a nord rispetto a Cuile is Coccus, per accudire le capre di suo fratello Salvatore nei terreni del compaesano Armando Pisu. Alle 17 «più o meno» si era diretto verso Burcei con la moto ape di Pisu e nel tragitto aveva incontrato due fratelli trattenendosi a chiacchierare, anche perché un mezzo bloccava il passaggio su un guado; poi, tornato a casa quando era appena calato il buio, si era lavato e cambiato ed era uscito col vespino per cercare qualche amico nei bar, poi era andato a casa di un’amica dove era rimasto sino alle 22-22,30.

A Masone Scusa, l’ovile collettivo utilizzato dai burceresi confinante con Cuile is Coccus, aveva tenuto le sue 50 pecore dall’aprile al luglio-agosto 1989, poi le aveva vendute; era tornato lì saltuariamente badando ai maiali di suo padre; non vi era mai stato nell’estate-autunno del 1990. Nel maggio-giugno 1990 aveva lavorato per un capraro, nel luglio 1990 per un altro; infine si era occupato delle capre di suo fratello. Dell’episodio della lite con Giuseppe Fadda, che conosceva, dà una versione ben diversa da quella di Melis: una volta, dice, era intervenuto perché il ragazzo e il padre Gesuino impugnando una roncola e una mazza litigavano con suo nipote, lui arrivò con Armando Pisu e disse a Giuseppe «se facessero al tuo bestiame quello che fai al bestiame degli altri…». Poi andò via. Nient’altro.

I parenti delle vittime sul luogo del delitto sotto punta Serpeddì a Sinnai
I parenti delle vittime sul luogo del delitto sotto punta Serpeddì a Sinnai
I parenti delle vittime sul luogo del delitto sotto punta Serpeddì a Sinnai

La Corte d’assise d’appello

Ma la Corte smonta, uno a uno, tutti gli argomenti dei legali e del condannato. Nonostante le discrepanze, i giudici ritengono la testimonianza di Pinna «pienamente affidabile e attendibile» tanto da formare una «prova diretta». Il superstite ha parlato «dopo un sofferto e meditato travaglio interiore» e non ci sono elementi «che possano far pensare a una calunnia». Le versioni difformi «non screditano il testimone», perché «in ogni momento del processo» si può «cambiare versione» senza che questo tolga al giudice «il potere di lasciare immutato il valore attribuito alle eventuali iniziali dichiarazioni accusatorie o di ritenere decisive le seconde». È quasi «un carattere fisiologico della testimonianza». L’importante è «passarle al vaglio critico per verificarle». E così è stato fatto. «Pinna è sempre stato un uomo onesto» sul quale non c’è mai stata «neppure un’ombra». Il suo racconto è «logico, coerente e dettagliato» e «ha trovato un riscontro perfetto». È rimasto «fermo e dolorante» sino alle 7,30 e ha «pensato a cosa dire» la mattina del 9 gennaio ai soccorritori.

Beniamino Zuncheddu, oggi 60 anni
Beniamino Zuncheddu, oggi 60 anni
Beniamino Zuncheddu, oggi 60 anni

La calza

Poi il 22 febbraio al pm ha «confermato il racconto» già fatto al poliziotto Uda il 9 febbraio aggiungendo «di aver mentito», davanti al carabiniere che lo interrogava sull’ambulanza la mattina dopo la strage, riguardo al «dettaglio della calza» sul volto che nascondeva il volto del killer e che in realtà non c’era. «Lo fece per paura, poi capì che era immorale e che comunque l’assassino sapeva di essere stato visto e poteva eliminarlo». Indicò l’omicida alto tra 170 e 180 centimetri, robusto, spalle larghe e con un po’ di pancetta, capigliatura folta e un poco mossa, capelli piuttosto lunghi, senza barba e baffi, con una leggera peluria come se non si fosse rasato di recente. Riconobbe Zuncheddu indicando la fotografia che lo ritraeva tra le 16 che in seguito gli furono mostrate dal pm (che quell’immagine fosse clamorosamente somigliante alla descrizione in precedenza agli inquirenti aveva suscitato più di un sospetto tra gli avvocati, ma l’elemento non fu considerato importante). Ribadì la sua convinzione quando vide il pastore con altre tre persone messe una di fianco all’altra per un riconoscimento. Confermò tutto ancora una volta in aula nel processo.

Le tante versioni

Sulle alterne versioni di Melis, la cui presenza alla lite con le minacce di Zuncheddu a Fadda è contestata dalla difesa (i legali sostengono che nell’estate 1990 il testimone stesse facendo il servizio militare e anticipano la frase di un anno, allontanandola così dalla strage), la Corte risponde: è vero, Melis la prima volta disse ai carabinieri che l’episodio gli fu riferito da Giuseppe Fadda nell’agosto del 1989 durante una festa paesana a Sinnai e dunque non lo vide; ed è vero che in seguito cambiò racconto e sostenne che invece aveva assistito di persona ai fatti. Ma aveva mentito solo «per paura: vide l’episodio». Dunque è credibile.

La zona in cui si trova Cuile is Coccus
La zona in cui si trova Cuile is Coccus
La zona in cui si trova Cuile is Coccus

I fucili

La presenza sul luogo del triplice delitto di cartucce calibro 12 marca Fiocchi evidenziata dalla difesa è «ininfluente». Chi sapeva dove erano nascosti i fucili «è stato ucciso»; Pinna «delle armi sapeva ben poco» e «non è emerso che altri» fossero a conoscenza dei nascondigli, «né si vede perché i Fadda avrebbero dovuto rivelarli». I Fadda «si erano armati e avevano più fucili», come risulta dal ritrovamento nell’ovile di «bossoli e cartucce di ben tre calibri diversi (12, 16 e 20)» perché «sapevano di essere al centro di una spirale di odio sempre più crescente tra Cuile is Coccus e Masone Scusa». Le armi erano state nascoste «in posti diversi» in caso ci fosse stata <necessità di difendersi da un’aggressione esterna improvvisa, prevedibile e prevista in quella che era diventata una battaglia». Dall’ovile erano spariti anche «una doppietta» e «un calibro 20» e c’era invece «un calibro 16», quindi «il mancato ritrovamento» del fucile semi automatico dei Fadda «significa nulla». La tesi che la strage sia stata commessa con quell’arma «è arbitraria». Come l’ipotesi che le vittime conoscessero l’assassino e che per questo fossero state avvicinate senza intimorirle.

«Un acerrimo nemico»

Versione quest’ultima che, fa notare la Corte, «intanto contrasta con la versione del mascheramento, perché un uomo travisato avrebbe fatto scappare subito Fadda»; e poi comunque «la determinazione del killer ha sbaragliato gli avversari». Fadda fu colto «alla sprovvista, senza avere il tempo di pensare», poi furono uccisi gli altri. Quella zona era «movimentata», vista la presenza di ovili vicini e delle «antenne Rai» a Serpeddì, quindi il rumore dei veicoli «non poteva mettere in allarme i pastori» e di conseguenza l’assassino «non aveva bisogno di parcheggiare lontano». Inoltre «il rumore poteva essere coperto dal concerto di voci degli oltre mille capi di bestiame» dei Fadda, «che attendevano di essere munti». Del resto «non c’erano neanche più i cani da guardia», uccisi dai pastori di Masone Scusa. Dunque «il killer poteva raggiungere tranquillamente l’ovile con un veicolo e lasciarlo in sosta in un luogo qualsiasi: sulla strada, nella campagna, fra gli alberi, senza creare sospetto o allarme». Con un vespino era «ancor più facile avvicinarsi». È una zona di montagna «ricca di vegetazione, anfratti e possibili nascondigli» ed era «già era buio», non c’era alcuna «necessità di accorgimenti particolari». Insomma, «non l’amicizia ma la sorpresa ha tradito Fadda», ucciso «da un acerrimo nemico».

Il poliziotto

Sul presunto «travaso di informazioni» dal poliziotto Uda a Pinna, spinto a un «falso riconoscimento» dall’investigatore «convinto della responsabilità» del pastore, la Corte parla di «ipotesi smentita». Il superstite «nega» che l’ispettore «gli abbia detto dei suoi sospetti prima di essere esaminato dal pm» e «anche Uda nega». Zuncheddu «al tempo dell’arresto corrispondeva alla descrizione fatta da Pinna: robusto ma non grasso, un po’ di pancetta, capelli scuri e folti lunghi. Barba non fatta». Aveva parlato di 180 centimetri di altezza mentre l’imputato raggiunge più o meno i 170? «Mentre Pinna cercava di scomparire fino ad arrivare a nascondersi parzialmente sotto il letto» nella stanza dormitorio dove si era nascosto, «l’omicida si ergeva in tutta la sua sicurezza e con la propaggine del fucile». Pinna era a terra, l’errore «è del tutto comune», mentre d’altro canto «ha acuito al massimo le sue capacità» e «raccontato tutto quello che era successo» descrivendo «perfino gli scarponcini del killer». Il sopravvissuto ha decritto «un individuo con le caratteristiche di Zuncheddu prima della ricognizione, quando mai aveva avuto modo di incontrarlo o vederlo. Non aveva alcun interesse ad accusarlo specificamente. Non lo conosceva, mai l’aveva visto prima: dall’8 gennaio al giorno del riconoscimento era stato in ospedale e poi a casa impossibilitato a muoversi». Quindi «travaso o non travaso, come avrebbe fatto a riconoscerlo prima fotograficamente e poi di persona se non lo avesse visto proprio la sera dell’8 gennaio a Cuile is Coccus?»

Eventualmente «si dovrebbe ipotizzare che Uda abbia mostrato segretamente la foto di Zuncheddu a Pinna inducendolo a sostenere che era stato lui a sparare, tacendo all’autorità giudiziaria che aveva già visto quella foto e stretto con Uda un accordo fraudolento». Un «patto diabolico in virtù del quale» il superstite «avrebbe volutamente mentito sul mancato travisamento e sull’aver visto in precedenza la foto dell’individuo che doveva riconoscere». Un dettaglio che tornerà, prepotentemente, solo a distanza di oltre 30 anni e che si rivelerà decisivo.

«Difesa senza argomenti»

Ma all’epoca, nel 1992, i giudici scartano la possibilità. A loro dire «Uda il 9 febbraio 1991 aveva già raccolto una serie di elementi accusatori su Zuncheddu e si era convinto fosse lui l’omicida, ma lo stesso giorno Pinna gli disse che l’assassino era mascherato». Perché mentire?, si chiede la Corte. L’ispettore, se avesse voluto condizionarlo, «avrebbe atteso» prima di verbalizzare il racconto «per convincerlo che la maschera non c’era e il colpevole era Zuncheddu. Invece il verbale era fedele». La decisione «di togliere la calza dal volto è di Pinna, non di Uda». Quindi l’ipotesi del «travaso si commenta e squalifica da sola». Si tratta di «una tesi disperata» della difesa, che «non ha altri argomenti» se non ipotizzare la creazione di «una falsa prova, un’operazione fraudolenta priva di qualunque giustificazione sul piano morale e personale. Sporca e pericolosa. Che Pinna vi si sia prestato trovando alibi morali è pura follia. Come potrebbe un uomo onesto ritenere moralmente accettabile una cosa del genere? Come convivere per tutta la vita con un rimorso del genere?» Insomma, «Pinna non aveva alcun interesse ad accusare falsamente Zuncheddu».

Il triplice delitto

La realtà per la Corte era che Uda andò all’ovile subito dopo i delitti «perché, essendo di Sinnai, aveva saputo». Poi passò dai parenti delle vittime. A Masone Scusa «trovarono lacci come quelli usati per impiccare i cani». All’ispettore «sembrava assurdo che l’omicida avesse una calza da donna» e chiese a Pinna «come fosse legata». In base alle descrizioni, «che il sopravvissuto non era in grado di dare», il collant «restava appeso come un carciofo». Così Uda gli chiese «di dire la verità», ma Pinna «aveva paura». Sino a quando chiese di parlare col pm e «disse come stavano le cose». Cioè che l’assassino aveva agito a volto scoperto, e per i giudici questa è la verità: perché se mascherato, «l’omicida non avrebbe avuto interesse a uccidere altre due persone che nulla c’entravano» ma «sarebbe fuggito. Introdursi nel dormitorio significava avere un grave motivo che non può che essere eliminare i testimoni che potevano averlo visto e riconoscerlo». Quindi «era a volto scoperto».

L'imprenditore Gianni Murgia dopo il rilascio
L'imprenditore Gianni Murgia dopo il rilascio
L'imprenditore Gianni Murgia dopo il rilascio

Sequestro? «Fantasia»

Insussistente anche il possibile legame col sequestro di Gianni Murgia, commesso il 20 ottobre 1990 a Dolianova: secondo la difesa Gesuino Fadda era preoccupato per qualcosa di diverso dalle liti coi vicini, e quel qualcosa era il rapimento perché il capo famiglia e gli occupanti dell’ovile potevano aver visto qualcosa che non dovevano. «Pura fantasia» per la Corte, perché «nulla» era emerso che collegasse i due episodi e «Murgia era stato portato lontano». Ad Austis, nel Nuorese, da dove era stato rilasciato l’11 gennaio 1991. Tre giorni dopo la strage.

Le ricerche di Gianni Murgia dopo il sequestro
Le ricerche di Gianni Murgia dopo il sequestro
Le ricerche di Gianni Murgia dopo il sequestro

La «verità»

Ecco dunque cosa era davvero accaduto quella sera sulle montagne secondo la Corte d’assise d’appello di Cagliari. «I fatti parlano da soli e sono di estrema gravità». I Fadda costruiscono l’ovile su un terreno recintato, «non molto vasto», di loro proprietà «perché ricevuto in eredità». Intorno c’è un’ampia area che gli stessi Fadda avevano avuto in uso dal Commissario per gli usi civici. Ma i «confinanti burceresi», proprietari di bovini, «la facevano da padroni invadendo il territorio». A partire dal 1988 chi si serviva di quegli ovili «era seduto su una polveriera che rischiava di saltare in aria da un momento all’altro». Da una parte i Fadda, che «non potevano accettare intrusioni estranee» in quanto «il pascolo era vitale per il loro bestiame»; dall’altra gli allevatori di Masone Scusa, «tutti legati a Zuncheddu a vario titolo». Lo sconfinamento «era abituale» e «dal 1989 Gesuino Fadda aveva presentato un esposto su 1.100 capre e pecore», più vari bovini, «che pascolavano incustodite sul suo terreno». Ma «la legge non era intervenuta». I Fadda «avevano il diritto sui terreni, compravano il mangime, ritiravano il bestiame per la notte e lo accompagnavano al pascolo; contro di loro c’erano i pastori di Masone Scusa che lasciavano il bestiame incustodito, lo abbandonavano sui terreni dei Fadda, continuavano a sconfinare». Così il capo famiglia «acquistò cani, che furono uccisi; altri furono impiccati; sparò alle vacche uccidendole». L’impiccagione dei cani «significava che la volta successiva quella fine sarebbe toccata ai padroni». Era «una lotta senza esclusione di colpi, per la sopravvivenza in una zona in cui la legge non arrivava».

Si è in presenza di una situazione «di intrinseca violenza», davanti a «episodi in crescendo che dimostrano che la battaglia tra allevatori aveva raggiunto momenti drammatici». La tensione era «alle stelle» e in prima linea c’erano «Armando Pisu e Beniamino Zuncheddu», che «difendeva i diritti di chi apparteneva alla collettività e si comportava come padrone e difensore degli interessi dei soci». Anzi, il suo interesse «era anche superiore perché non aveva alcun terreno e doveva chiedere ad Armando Pisu di aiutarlo». Quando si era aggiunto a Masone Scusa aveva reso «indispensabili gli sconfinamenti», perché nell’ovile a quel punto «c’era troppo affollamento». Di conseguenza «era uno dei più interessati a far abbassare la cresta ai Fadda». Una «causale prepotente». Del resto «Fadda non si sarebbe fatto piegare da vivo» e «Zuncheddu aveva apertamente minacciato di morte il figlio Giuseppe: una minaccia che individualizza la causale concentrandola sull’imputato». Quella frase, “quel che fai alle vacche un giorno sarà fatto a te”, «non va minimizzata». In fondo «i fatti parlano da soli» e «alla minaccia di morte qualche mese dopo è seguita la morte». E questo «inchioda Zuncheddu».

L’alibi «inesistente»

Che si dà il colpo finale mentendo sull’alibi. Zuncheddu sostiene di essersi fermato a un guado di rientro da Perdu Noru la sera della strage ma chi era con lui all’inizio non ne fa cenno agli investigatori proprio perché «non voleva che l’attenzione cadesse» sul pastore di Burcei; secondariamente l’imputato arriva in paese verso le 17,45 e ha «il tempo di andare all’ovile col vespino o altri mezzi e sparare alle 18,30 con una freddezza spaventosa e una rapidità impressionante». Il tutto dura «pochi minuti». Il rientro a casa avviene «poco dopo le 19»: Zuncheddu «si lava e va a casa dell’amica dove poi verso le 19,30-20 arriva la figlia della proprietaria, che stava lavando i piatti della cena». Di fatto «l’alibi è inesistente».

L’alibi «falso»

Poi c’è quello falso, arrivato «nel settembre 1991, quando due testimoni dicono di aver visto Zuncheddu in centro» a Burcei confermando quanto affermato dall’imputato in una seconda versione sui movimenti di quella giornata: in sostanza il pastore aveva sostenuto che, prima di andare a casa dell’amica, aveva girato tra i bar per cercare qualche amico. Un racconto introdotto secondo i giudici «dopo il nuovo alibi preparato per lui». Ma «avrebbe dovuto dirlo subito». In realtà «i giri non c’erano stati» e «i due testi sono falsi e compiacenti e hanno aiutato Zuncheddu, disperato, a preparare un alibi falso in cui è insita la consapevolezza dell’illegittima condotta». Un ulteriore «elemento a carico dell’imputato», un «indizio utile a fare la prova». E l’artefice «è stato proprio Zuncheddu», che ha provato a collocarsi «in giro per Burcei» nel tentativo «di sottrarsi all’accertamento della verità». L’imputato «tende all’inganno e alla frode processuale», ha creato un disegno «diretto a ingannare la giustizia».

Beniamino Zuncheddu nella sua abitazione di Burcei dopo la revisione
Beniamino Zuncheddu nella sua abitazione di Burcei dopo la revisione
Beniamino Zuncheddu nella sua abitazione di Burcei dopo la revisione

Ergastolo

In conclusione, ci sono «il riconoscimento della vittima, la causale, le minacce di morte e l’alibi falso» che, collegati tra loro, «sono elementi che offrono la prova certa della colpevolezza» inchiodando Zuncheddu «alle sue gravissime responsabilità». Risultato: l’8 novembre 1992 arriva la sentenza ed è una conferma dell’ergastolo inflitto in primo grado.

5) continua

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