L’addio al centenario Carter, il miglior ex presidente degli Usa
Poco apprezzato durante il suo mandato, è stato il più incisivo nella politica americana e mondiale tra coloro che avevano concluso il loro soggiorno alla Casa Bianca: fino a ottenere il Premio Nobel per la pace nel 2002Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
A Plains abitano meno di 600 persone, l’ultimo censimento si è fermato a 573. Piccolo borgo storico della Georgia più rurale, dedita alla coltivazione del cotone e altre attività agricole, sarebbe pressoché ignota al mondo se non fosse per il suo cittadino più illustre, l’ex presidente Usa Jimmy Carter, morto domenica 29 dicembre 2024 all’età di 100 anni. Una figura che probabilmente resterà nella storia degli Stati Uniti soprattutto per quel che fece dopo l’addio alla Casa Bianca, più che per il periodo della presidenza, concluso nel 1980 con una delle sconfitte più dure per un uscente.
Dopo aver ceduto lo scettro del comando a Ronald Reagan, Carter tornò a vivere nella piccola Plains, dove è rimasto sino alla morte: ma fu pienamente presente nella politica internazionale, tanto da meritarsi nel 2002 il premio Nobel per la pace, unico presidente Usa a riceverlo quando non era più in carica. Oltre ai record di longevità (è stato il primo ex presidente a raggiungere il secolo, e a vivere per quasi 44 anni dopo la fine del mandato), gli va riconosciuto anche il fatto di essere stato, tra i tanti capi di Stato Usa, quello che ha esercitato la maggiore influenza dopo essere ritornato un semplice cittadino.
Le scelte degli inizi
Nessuno avrebbe pronosticato una seconda parte della vita così fulgida e ricca di onori, per quell’uomo passato dalla produzione di arachidi nell’azienda familiare allo Studio Ovale, che vide precipitare la sua popolarità durante i suoi quattro anni a Washington. Carter in effetti dovette confrontarsi con uno dei periodi più tesi della Guerra fredda, ma anche con una forte crisi economica che strinse gli Stati Uniti in una morsa fatta di forte inflazione e bassa crescita.
Molti osservatori lo giudicarono inesperto e impreparato per sfide così dure, anche se la sua candidatura alla presidenza non era arrivata dal nulla: era stato governatore della Georgia dal 1971 al 1975, e in precedenza membro del Senato dello Stato georgiano. Ma in effetti aveva una storia politica particolare, completamente diversa, per esempio, da quella dei Kennedy (di cui pure era un seguace), che la politica l’avevano respirata dalla nascita. Da giovane, James Earl Carter Jr. era proiettato semmai verso una brillante carriera in Marina, dopo aver frequentato l’Accademia navale laureandosi in ingegneria. Ma nel 1953, alla morte del padre di cui aveva ereditato il nome, decise di ereditarne anche il ruolo a capo dell’azienda di arachidi, e così torno in Georgia insieme alla moglie Rosalynn, anche lei cresciuta a Plains, che aveva sposato nel 1946 e con cui sarebbe rimasto fino alla morte di lei, nel novembre 2023.
In quegli anni, gli Stati del Sud erano ancora macchiati dalla segregazione razziale; Carter, che nel suo borgo natio aveva familiarizzato con molti afroamericani, aveva posizioni più aperte, in linea con la Chiesa Battista di cui faceva parte. Ma quando iniziò a fare politica, pur schierandosi con i liberali, tenne un profilo pubblico molto prudente sul punto. Tanto da condurre una campagna elettorale per il governatorato, nel 1970, sostanzialmente in accordo con i segregazionisti. Salvo poi tradirli dopo l’elezione, quando affermò già nel discorso di insediamento che “il tempo della discriminazione razziale è finito”.
I passi successivi (la nomination per le presidenziali del 1976, la vittoria contro l’uscente Gerald Ford) furono indubbiamente favoriti dalle debolezze del partito democratico e del presidente repubblicano, che da vice aveva preso il posto del dimissionario Nixon dopo lo scandalo Watergate. Carter si trovò di fatto a governare la prima potenza mondiale senza il supporto adeguato di strutture di partito realmente efficaci; anche se ebbe un buon sostegno da parte del suo vice, Walter Mondale, che non a caso fu il primo a ottenere dal presidente un ufficio di rilievo nell’Ala Ovest della Casa Bianca, e a recitare un ruolo non di mera comparsa.
La crisi degli ostaggi
Al di là della lotta contro la crisi economica, che non portò grandi risultati, a segnare il mandato di Jimmy Carter fu soprattutto la politica estera. In questo campo colse tra l’altro un successo notevole, gli accordi di Camp David per la pace tra Egitto e Israele, ma alcune delle principali decisioni suscitarono molte polemiche, e non furono comprese dagli elettori americani. Tra queste, a lasciare il segno più pesante furono senz’altro il boicottaggio delle Olimpiadi del 1980 a Mosca e la gestione del sequestro del personale americano all’ambasciata di Teheran. Nel primo caso, Carter indusse il Comitato olimpico del suo Paese a non mandare atleti a Mosca, come ritorsione per l’invasione sovietica dell’Afghanistan: ma nelle intenzioni doveva essere un’astensione molto più massiccia, estesa possibilmente a tutto il blocco occidentale, così da rendere l’Olimpiade dei russi un flop. Invece molti alleati (compresi Gran Bretagna e Italia) in un modo o nell’altro aggirarono il boicottaggio e parteciparono.
Ancor di più incise, sull’esito infausto per Carter delle elezioni del 1980, la questione degli ostaggi in Iran. I 53 cittadini americani che erano nell’ambasciata Usa a Teheran nel giorno dell’irruzione degli studenti rivoluzionari, il 4 novembre 1979, rimasero prigionieri per oltre un anno (tranne i pochi rilasciati per ragioni umanitarie o di salute), con soggiorni anche molto duri nelle carceri iraniane. Un tentativo di liberarli con la forza finì miseramente con un incidente aereo, in cui morirono otto soldati americani a bordo di un elicottero militare, oltre a un civile iraniano. E le manovre diplomatiche sembravano impantanate, durante la campagna elettorale per le presidenziali. Non è l’unico motivo per cui il repubblicano Reagan sconfisse Carter in quasi tutti gli Stati federali, con un vantaggio vicino al 10% nel conto dei voti totali: ma certo la vicenda condizionò parecchio l’opinione pubblica, che andò alle urne proprio nel giorno dell’anniversario della presa dell’ambasciata. Gli ostaggi sarebbero stati liberati solo il 20 gennaio 1981, giorno dell’insediamento di Reagan; nel 2023, un’inchiesta del New York Times ha affermato che lo staff della campagna del candidato repubblicano avrebbe segretamente trattato con gli studenti iraniani per ritardare la soluzione del caso.
La sua seconda vita
C’erano tutte le premesse perché il presidente cui il popolo aveva negato il secondo mandato (caso piuttosto raro) finisse sostanzialmente dimenticato, o archiviato tra le figure meno incisive della politica americana di primissimo piano. Invece il suo piccolo miracolo è stato trasformare la pensione in una fase feconda di attività e di risultati. Il Carter Center, la fondazione da lui creata come d’abitudine per gli ex presidenti, anziché limitarsi a iniziative prive di sostanza ha collaborato in molte azioni a tutela della salute pubblica nei Paesi economicamente più arretrati; e lui personalmente ha intrapreso varie missioni di pace con diversi governi mondiali (da Israele alla Corea del Nord di Kim Il-Sung). Dopo aver ricevuto il Premio delle Nazioni Unite per i diritti umani, il più grande riconoscimento gli è giunto nel 2002 col Premio Nobel per la pace. La motivazione fa riferimento anche agli accordi di Camp David, raggiunti sotto la sua presidenza, ma cita soprattutto le attività successive al suo mandato: “Attraverso il Carter Center – scrisse il comitato norvegese per il Nobel – ha intrapreso un’opera di risoluzione dei conflitti molto estesa e determinata in diversi continenti. Ha mostrato uno straordinario impegno nei confronti dei diritti umani e ha lavorato come osservatore in innumerevoli elezioni in tutto il mondo. Ha lavorato intensamente su vari fronti per combattere le malattie tropicali e creare crescita e progresso nei Paesi in via di sviluppo”. La spinta finale per il Nobel, però, probabilmente l’hanno data le sue posizioni contrarie alla guerra contro l’Iraq che il presidente George Bush Jr. stava preparando dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, e che fu poi effettivamente scatenata nel marzo 2003.
Curiosamente, il generale consenso verso la sua attività da privato cittadino si è poi tradotto anche in una rivalutazione del suo operato presidenziale. Mentre era in carica, il suo indice di gradimento scese fino al 28%, uno dei dati più bassi della storia della Casa Bianca; e ancora nel 1990, un sondaggio Gallup collocò Carter al terzo posto tra i presidenti meno apprezzati dagli americani. Solo Nixon e Lyndon Johnson ottennero valutazioni peggiori. Ma nel tempo la situazione è cambiata parecchio: sempre secondo i sondaggi Gallup, l’indice di approvazione del lavoro svolto durante la sua presidenza è salito al 61% nel 2006, e al 69 un anno dopo. Come ha scritto The Independent nel 2009, “Carter è ampiamente considerato ora un uomo migliore di quanto non fosse come presidente”. Il suo ultimo obiettivo politico, dichiarato nei mesi scorsi, era arrivare ai 100 anni (compiuti il primo ottobre) e superarli il tanto che bastava per votare Kamala Harris nell’elezione presidenziale dello scorso 5 novembre contro Trump. Il voto per posta gli ha consentito di raggiungere il suo scopo, anche se ha poi dovuto prendere atto della sconfitta della candidata democratica. Ma il vecchio Carter si è poi potuto addormentare per sempre, a poche ore dalla fine del 2024, sapendo di aver portato a termine il suo ultimo dovere.