La vittoria di Trump e la solita domanda “sinistroide”: gli americani hanno perso il senno?
L’analisi del voto in America tra meriti del tycoon e una sinistra americana che si è rivelata debole, in piena crisi di identità e di leadershipPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Il 47°, dopo essere stato anche il 45°. Ha vinto come ai repubblicani, i rossi sulla cartina geografica del voto, non succedeva dal 2004: il palazzinaro prestato alla politica, e prima alla tv, ha superato Kamala Harris pure sul voto popolare. Ovvero, il totale delle preferenze che, per la legge elettorale a stelle e strisce, contano poco. La scalata alla Casa Bianca, infatti, passa dai delegati: a ciascuno dei cinquanta Stati americani ne spetta un tot, per un totale di 538, tanti quanti gli scranni del Congresso. Chi raggiunge la maggioranza, governa. Ma Trump ha lasciato indietro gli avversari dem pure alla conta finale secca dei voti: quasi 72 milioni, mentre Harris si è fermata poco sopra i 67.
Gli analisti politici, almeno quelli più attenti, dicono che la vittoria del tycoon, il più anziano presidente degli Stati Uniti – è nato il 14 giugno del 1946 e a gennaio, quando arriverà a Washington, avrà 78 anni e mezzo – era prevedibile. Non la pensavano così, almeno ufficialmente, i democratici che nella tenuta del Blue Wall, il famigerato muro blu dei tempi migliori, ci credevano.
Il 6 novembre, quando in Europa sono arrivati i risultati delle urne americane, sui social in migliaia hanno condiviso la foto della Statua della libertà con le mani sugli occhi. In segno di disperazione. Come se gli americani avessero fatto la più grande idiozia del mondo.
Che poi: per certi versi è così. Alla Casa Bianca ritorna un omofobo, sessista e razzista. Uno che ha idee da primatista bianco. Protezionista in economia e isolazionista sotto il profilo degli scambi socio-culturali. Per Trump, detestato da metà partito che poi si è dovuto arrendere alla sua capacità di arringare le folle, l’America è solo degli americani. Ed è proprio con questi refrain di chiusura al mondo che il tycoon ha conquistato gli elettori soprattutto nel Sud e nel Midwest, dove notoriamente vivono i cittadini meno istruiti e quindi più facilmente manipolabili. Ma la novità è che pure nella costa, in quella ovest della California e in quella est di New York e Boston, Trump ha perso con un distacco contenuto.
Ecco allora la domanda fatidica: negli Stati Uniti hanno perso il senno? No, non necessariamente. Il primo problema è che in America – e questo vale a tutte le latitudini – la sinistra non sta più facendo la sinistra. Non sta rispondendo alle difficoltà economiche dei cittadini, non sta intercettando le paure dei cittadini, non sta costruendo una rotta programmatica convincente e solidale. Il risultato è che un tycoon egotico come Trump sfrutta questo vuoto e offre lui la ricetta facile a misura di grandeur americana. Il nuovo presidente ha promesso che combatterà l’inflazione, la prima piaga che affligge l’economia oltreoceano, cresciuta a doppia cifra con Biden insieme all’occupazione. Ma i prezzi sono raddoppiati: oggi una scatola di uova costa in media 3,8 dollari contro l’1,6 del 2017. Trump dice che farà cassa con i dazi, sino a ricavare tra i 4 e i 7 miliardi di dollari in più all’anno.
Quello che hanno fatto gli americani alle elezioni del 5 novembre è stato credere alle ricette facili di Trump. Alle sue ripetute certezze sulla boccata d’ossigeno che verrà data ai cittadini. E così dalla sua il miliardario 78enne non solo ha portato più giovani, ma anche più neri e più latinos. Ovvero, i tre zoccoli duri dell’elettorato dem che Trump è riuscito a erodere, rivelando la debolezza di Harris, andata peggio di Biden su tutta la linea. Quell’anziano Joe che, alla fine, resta l’unico democratico capace di battere Trump. Non ci riuscì Hillary Clinton nel 2016 e non ce l’ha fatta Kamala a questo giro.
È evidente che la sinistra americana, archiviato il doppio mandato di Barack Obama, abbia un problema grosso così di leadership. Non solo perché la debolezza politica di Harris era nota, ma perché il partito è rimasto sotto scacco dell’entourage di Biden, accettando passivamente le incertezze senili e mnemoniche mostrate dal presidente. E quando i maggiorenti sono riusciti a ribellarsi, era già settembre. Troppo tardi per fare le Primarie, tradendo così la fiducia dell’elettorato liberal. Sulla corsa di Harris non ha deciso la base del partito. Ma Biden, come se la candidatura per la prima democrazia del mondo dovesse essere un affare da segrete stanze. Un errore imperdonabile nel campo dem. E le urne lo hanno dimostrato.