La recente gaffe di Salvatore Cuffaro, ex governatore della Sicilia, che ha involontariamente trasformato le celebri parole di Martin Luther King, I have a dream (ho un sogno), in uno slogan per bevande alcoliche, I’m a drink, ripropone l’annoso problema del rapporto tra gli italiani e le lingue straniere. 
E soprattutto dei nostri politici con l’inglese, lingua ormai necessaria per comunicare con mezzo mondo.

Il celebre video di Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, che nel 2014 balbetta alla BBC in un inglese improbabile è ancora nella memoria di molti. Qualche passo avanti è stato fatto negli anni recenti grazie agli ultimi premier: Mario Draghi lo parla fluentemente; meno bene, ma comunque accettabile, era il livello di Giuseppe Conte e quello dell’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che se la cava anche con lo spagnolo e il francese, forte degli studi svolti al Liceo Linguistico. Ma il nostro presidente della Repubblica, ad esempio, non parla una parola di quella che ormai è la lingua franca per eccellenza. E così molti altri politici faticano a mettere in fila tre parole. 
È vero che solitamente agli incontri internazionali sono presenti gli interpreti in modo da evitare qualsiasi tipo di equivoco su materie delicate, come l’economia o la politica estera, ma sarebbe auspicabile che almeno le più alte cariche dello Stato sapessero esprimere autonomamente qualche frase nella fase dei convenevoli. Invece solitamente assistiamo a facce spaurite se l’interprete non traduce prontamente anche i normali saluti. Oppure, come accadde a Berlusconi di fronte all’allora presidente Bush, a tentativi simpatici, ma molto imbarazzanti, di tradurre in un inglese maccheronico i propri pensieri.
Le gaffe dei politici si sprecano e passi per chi ha oltre ottant’anni ed è vissuto in un periodo in cui al liceo si studiava una lingua straniera poco e male. Ma che dire dei giovani che masticano a malapena qualche parola, nonostante oggi lo studio dell’inglese sia di almeno otto anni tra scuole medie inferiori e superiori? 
Eppure nei test europei continuiamo a classificarci agli ultimi posti per conoscenza della lingua inglese.
Il report annuale dell’EF EPI (English Proficiency Index), l’ente che rileva il livello di conoscenza dell’inglese, la padronanza della lingua da parte degli italiani è fra le più basse d’Europa. Siamo 36esimi al mondo e 26esimi nel continente, staccati di venti punti dal gruppo di testa (Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca) ma anche di dieci punti da Paesi che hanno implementato nei programmi scolastici lo studio della lingua solo negli ultimi decenni, come la Polonia e il Portogallo. 
Si potrebbe dire che la causa sia linguistica poiché l’inglese è una lingua germanica, con radici diverse dalla nostra neolatina, ma la verità è che in altri Paesi europei, perfettamente bilingui, c’è un’immersione nella seconda lingua fin dalla più tenera infanzia, grazie ad esempio ai cartoni animati e, poi, ai film in lingua originale, favorendo la comunicazione invece che lo studio della grammatica. I nostri studenti, al contrario, spesso sanno spiegare le strutture grammaticali meglio di un nativo, ma hanno grosse difficoltà a comunicare: difatti, secondo i dati dell’EF EPI, solo il 30% degli studenti degli istituti secondari pubblici, medie e licei, raggiunge il livello B2 (ovvero il livello di apprendimento minimo richiesto dal mercato del lavoro e iniziale requisito d’accesso per molte università straniere) rispetto al 50% che, invece, viene raggiunto negli altri Paesi europei. E negli Istituti tecnici i dati peggiorano sensibilmente.
Il problema, quindi, è soprattutto culturale, non certo linguistico: a dimostrazione della mentalità ancora diffidente verso l’inglese si può citare il caso del Politecnico di Milano, che nel 2018 ha avuto una sentenza avversa del Consiglio di Stato riguardo ai corsi tenuti esclusivamente in inglese. Per il Consiglio di Stato era una discriminazione nei confronti di chi non conosce una lingua straniera. Ma l’università ha ribadito che: «L’insegnamento in inglese non lede il diritto allo studio, ma favorisce il diritto al lavoro».

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