Arriva il Natale, la festa più solenne dell'anno per gli italiani. Attesa e sentita in ogni parte dello Stivale, è sempre stata celebrata all'insegna di tradizioni che ancora oggi resistono. Il classico albero di Natale è uno dei simboli che dall'8 dicembre, giorno dell'Immacolata Concezione, risplende nelle case, il primo con cui ogni anno si dà il benvenuto alla festività, arricchita da presepi e decorazioni, anche nelle piazze principali delle città. In genere dove si festeggia il Natale la corsa ai regali dura tutto dicembre, fino all'exploit del 24 notte, quando il dono sarà scartato, a mezzanotte, l'ultimo rintocco d'orologio nella giornata che segna la nascita di Gesù, il 25 dicembre, per tutte le Chiese cristiane.

Finora è andata così, bene o male. Quest'anno sarà sicuramente diverso dagli altri, con un 2020 che sta per andarsene ancora stretto nelle maglie di un virus e di restrizioni anti-contagio che al momento non si allenteranno. Ma sarà sempre Natale. E oggi, di questi tempi, più che mai danno conforto i racconti di genitori e nonni che nel loro "Natale d'altri tempi" custodiscono il vero senso della festività, sicuramente oggi un po' svanito. E così, con quest'intento, s'incontra chi lascia in eredità i suoi ricordi ai nipoti e, tra tutti, quelli custoditi nel racconto "Notte di Natale 1947", tratto dal diario che una nonna, Elena Renza, ha scritto per sua nipote. Allora non c'era il benessere di adesso e il Natale aveva un altro significato, tutt'altro che consumistico, per la maggior parte delle famiglie. Così racconta la quasi ottantenne cagliaritana, rispolverando l'album dei ricordi che arrivano dall'Emilia Romagna, esattamente da Sala Baganza, in provincia di Parma. Qui ha vissuto con i genitori sino al 1950, quando morto il padre è tornata in Sardegna con la mamma. Viveva a "Casino dei boschi", una vita da fiaba, dice pensando alla sua infanzia. E la notte di Natale, per lei come per altri in molte parti d'Italia, si usciva di casa alle 22 dopo una cena frugale a base di gallina, quando c'era, o polenta, arrosto e mele cotte sotto la cenere, spellate e cosparse di zucchero che, all'epoca in cui mancava tutto, era una vera leccornia. I pensieri corrono nella mente di Elena, oggi nonna e madre di tre figli. Per i bambini era un atto di coraggio, a quell'ora, quando si cascava dal sonno, pensare di dovere uscire e lasciare il tepore di casa per affrontare la neve e il vento gelido della notte. Le famiglie si radunavano nello spiazzo di fronte alla stalla, gli uomini portavano le torce fatte con legno di bosco fumose e fiammeggianti che illuminavano la notte buia. Tutto intorno si veniva a creare un'atmosfera magica, irreale, fatta di ombre e di mistero e non è difficile immaginare quanto tutto questo potesse significare per un bambino. Sensazioni di allora che l'autrice del racconto trasporta nel suo diario facendole rivivere ai lettori.

Chi l'ascolta immagina di essere lì con lei, in quel 1947. Nonna Elena si rivolge alla nipote ma vuole farlo sapere a tutti i bambini di oggi, in questa vigilia del Natale 2020 a Cagliari, quali erano i sacrifici di un tempo, "altro che auto e termosifoni o merendine!". Il diario si riapre su un'altra pagina. Tutti insieme, piccoli e adulti, si avviavano verso la chiesa che distava più di un chilometro da casa. Eravamo - scrive Elena Renza - come piccoli soldati, tutti coperti da mantelle, berretti, sciarpe avvolgenti che lasciavano intravedere solo gli occhi e con gli scaldini appesi al collo: barattoli di latta con fori laterali per far passare il fil di ferro e al cui interno contenevano la brace del camino, insomma una sorta di armatura per difendersi dal freddo. Il racconto di Natale è un film, con la voce di Elena in sottofondo: marciavamo impavidi percorrendo sentieri in mezzo ai boschi e affondando gli scarponi nella neve. Intanto si chiacchierava, si cantavano le nenie natalizie, si battevano mani e piedi per scacciare il freddo. Talvolta in mezzo al buio si intravedevano dei puntini luccicanti: erano gli occhi di qualche scoiattoli che stupito stava a guardare quella strana marcia rumoreggiante. Come era bello, in quel silenzio perfetto, immersi nella natura, sentire il coro delle voci delicate di noi bambini, unite a quelle forti degli adulti. Uno scampanìo in lontananza - racconta Elena - ci faceva rallegrare perché significava che eravamo quasi arrivati alla meta, così affrettavamo il passo. Finalmente in chiesa, i più fortunati trovavano posto accanto alle stufe di cotto rosso che bruciavano tanto che qualcuno, mettendoci sopra le mani, si scottava. Mia mamma - ricorda Elena - era già al posto di comando seduta dietro un harmonium che dimostrava più di cento anni, ma che diffondeva nell'aria, suonato magistralmente e unito al coro, musiche celestiali.

Anche il presepe era un capolavoro, frutto dell'estro artistico di alcuni abitanti del paese. Nell'aria il profumo dei tronchi di abete e del muschio fresco, in posa le statuine di argilla, qualcuna non del tutto integra e in sottofondo il gorgoglio dell'acqua "vera" che scendeva dai monti. Al termine della messa l'arciprete chiamava tutti in canonica per offrire mestoli di latte caldo e fette di pane con burro e marmellata casalinga di prugne, inoltre riempiva le nostre tasche di noccioline e "straccadenti", una sorta di biscottini durissimi. Così tra saluti, strette di mano e baci, rifocillati a dovere, il gruppo dei bambini era pronto per affrontare la via del ritorno fino a casa.

Lungo il cammino Elena e i suoi amichetti pensavano a quanto sarebbe stato bello trovare il letto riscaldato dal "prete", così si chiamava una sorta di impalcatura di legno che sollevava le coperte, con al centro uno scaldino al cui interno venivano poste le braci prese dal camino. Ma non tutti l'avevano, e così nonostante le lenzuola rigide e gelate, tutti si addormentavamo stanchi ma felici, sognando i doni di Natale. Forse un libro di disegni a colori, soldatini di piombo, bamboline di pezza, fucilini di legno e caramelle di zucchero bruciato. I doni nel paese di Elena non li portava Babbo Natale ma Santa Lucia, il 13 dicembre. per lei la tombola geografica e un paio di calzettoni colorati lavorati ai ferri dall'Argenta, la figlia del fattore ("che queste cose le sapeva fare bene"), accompagnati da un biglietto d'auguri dalla calligrafia incerta, come se fosse stato scritto proprio da santa Lucia perché era cieca. E naturalmente le caramelle di zucchero bruciato. Quanta dolcezza e semplicità, dice Elena rivolgendosi alla nipote. "Piccole cose che per me erano grandi cose", come ricevere il giorno di Natale l'invito a pranzo dalla famiglia del fattore del principe Carrega per mangiare finalmente la gallina faraona o l'oca arrosto, i cappelletti fatti in casa, i funghi di bosco, ed infine per dolce il castagnaccio.

Ecco questo era il Natale d'altri tempi: sereno, magico, fatto di cose semplici, "che mai dimenticherò e che ancora oggi rivivo dentro il mio cuore bambino e che mi rendono felice". Finisce così il racconto, sotto la firma di una nonna che, come tante nel mondo, ha tanto da insegnare, Elena Renza.
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