«Il killer aveva una calza sul viso, non l’ho riconosciuto»
A Roma nel processo di revisione il superstite della strage di Sinnai rivela di aver visto la foto di Beniamino Zuncheddu (il pastore di Burcei condannato all’ergastolo) prima di incontrare il pm: gli fu mostrata, dice, da un poliziotto che lo convinse della responsabilità dell’uomo raffigurato nell’immagine.Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Continua la ricostruzione della lunga vicenda che per oltre 30 anni ha portato in carcere un innocente.
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Le udienze
Terminato il lungo viaggio di avvicinamento al vero processo di revisione, le udienze davanti alla Corte d’appello di Roma chiamata a valutare se realmente sia stato Beniamino Zuncheddu a commettere la strage di Sinnai (tre morti sulle montagne a ridosso di Burcei, paese dell’imputato, l’8 gennaio 1991: motivi agro pastorali, secondo la sentenza definitiva che nel 1992 condanna all’ergastolo il pastore) entrano nel vivo nell’ottobre 2023. Sfilano i testimoni: comincia il carabiniere Luigi Calabrese, che per primo parlò con l’unico superstite dell’eccidio, ma la deposizione fondamentale è proprio quella del superstite Luigi Pinna, genero di Gesuino Fadda (58 anni, proprietario di Cuile is Coccus, teatro della mattanza, ucciso con il figlio Giuseppe, 28, e il pastore Ignazio Pusceddu, 58).
Il ricordo
Il militare poco dopo le 14,30 davanti ai giudici ricorda che la mattina del 9 gennaio 1991, mentre si recava all’ovile, a 700 metri di altitudine sotto le antenne del monte Serpeddì, aveva incrociato l’ambulanza che trasportava il ferito in ospedale. Lui era salito a bordo del mezzo di soccorso per sentire il racconto di chi aveva vissuto l’orrore in diretta. Pinna «era agitato e spaventato e insistetti perché spiegasse quanto accaduto», spiega il luogotenente ai giudici, «disse che non poteva riconoscere l’aggressore: aveva un collant da donna sul viso». Calabrese ricorda che le indagini si indirizzarono subito sull’ambiente agro pastorale e «verso Masone Scusa», l’ovile collettivo confinante con quello del triplice omicidio, ma che le fonti investigative dell’Arma «mai fecero il nome di Zuncheddu», il quale pochi mesi dopo però fu arrestato dalla Polizia, «sicura della sua colpevolezza»; e che il poliziotto Mario Uda, determinante nell’esito della vicenda, «mai mi parlò dei risultati delle indagini». All’epoca chiese al sopravvissuto se gli omicidi fossero stati commessi «da qualche suo conoscente» e lui «mostrò imbarazzo dicendo “non è che poi vengono a cercarmi per ammazzarmi”?» Poi descrisse una persona «robusta con una giacca chiara».
L’appuntamento decisivo
L’appuntamento successivo, il 31 ottobre, è dedicato al confronto tra consulenti e periti autori delle trascrizioni e traduzioni delle intercettazioni decisive per il procedimento, con l’analisi delle frasi fondamentali tramite le quali Pinna nel febbraio 2020 davanti al Palazzo di giustizia di Cagliari spiega alla moglie in auto (ascoltato dai carabinieri) di aver indicato Zuncheddu su spinta proprio di un poliziotto (Uda) il quale gli aveva fatto vedere il volto del pastore di Burcei prima di procedere col riconoscimento ufficiale davanti al pm. Ma l’udienza che spariglia le carte e dà un indirizzo chiaro al procedimento arriva il 14 novembre. Quando testimonia il sopravvissuto.
Quel giorno l’attesa è enorme: è chiaro a tutti (giudici, procura, difesa, giornalisti, parenti, forza dell’ordine e chiunque abbia seguito la vicenda) che le dichiarazioni di Pinna possono chiudere la speranza di Zuncheddu di tornare in libertà o ribaltare la sentenza che, oltre trent’anni prima, è costata l’ergastolo al pastore. E infatti l’aula al secondo piano della cittadella giudiziaria nella Capitale è piena. Anche la stampa nazionale, che nei primi due anni di appuntamenti non si è vista (tutta la trafila giudiziaria è stata seguita sino a quel momento solo dall’Unione Sarda), ha capito l’importanza della testimonianza.
La versione
Quando Luigi Pinna fa il suo ingresso in aula il silenzio si fa marcato. Il superstite avanza a passo incerto a causa delle gravissime ferite subite la sera dell’eccidio (una fucilata esplosa a bruciapelo), e forse anche intimorito dal contesto: ha tutti gli occhi addosso, sa che dovrà ripercorrere con la memoria quanto accaduto nel 1991 e da allora in poi. Un dolore mai sopito.
Il racconto non scorre veloce. Anzi. Il testimone deve essere sollecitato spesso dalla Corte, dal pg e dagli avvocati, spiega gli avvenimenti seguendo un filo logico personale a tratti non comprensibile a chi ascolta. Raccoglie i ricordi in modo confuso, fa nomi, ricostruisce date, rapporti con investigatori, situazioni e avvenimenti senza (apparentemente) una sequenza chiara. Sostiene di aver saputo, circa «vent’anni fa», dunque dieci dopo la strage, che gli autori del delitto «erano in tre, per quel che mi è stato riferito da un mio compaesano di Maracalagonis» dal quale poco dopo gli omicidi (pare) erano andate «due persone con tre fucili» chiedendogli «di modificarli», cioè «probabilmente di levare le matricole». Aveva pensato subito si trattasse delle armi usate per la strage, che era necessario rendere non “identificabili”. Lo stesso compaesano gli aveva detto che uno dei tre uomini era «Beniamino Zuncheddu». Ma pure che «dovevano pagare anche gli altri». Pinna l’aveva interpretata così: il pastore di Burcei era coinvolto ma con lui c’erano altre persone. Ipotesi della quale lo stesso Pinna si era convinto in base a un proprio «ragionamento», perché un unico killer «avrebbe rischiato anche di brutto ad ammazzare quattro persone con un solo fucile».
Certezze che tuttavia cominciano a mostrare crepe, perché nel corso della testimonianza il superstite vacilla: «Se ho sbagliato che Dio mi perdoni», sussurra al microfono davanti a una platea in assoluto silenzio, «però non lo so davvero. Vorrei fare solo una cosa, vorrei morire in questo momento, non ce la faccio più. Sto impazzendo, sto impazzendo sul serio». Emerge tutta la tensione. Denuncia di aver ricevuto minacce da parenti e conoscenti dell’imputato, tesi in realtà ritenuta non attendibile dagli inquirenti, convinti che si tratti di suggestione: il terrore provato quella notte del 1991 e una vita trascorsa con la paura addosso hanno avuto un effetto deleterio. «Mi sono salvato per miracolo e io sto impazzendo, sto impazzendo. Sul serio, sto impazzendo. Non dormo più la notte signor giudice e sono stanco, stanco, stanco, stanco».
Il presidente dà la svolta
Il presidente della Corte capisce il momento e decide di intervenire spiegando a Pinna cosa sta accadendo in quell’aula. Ed è la svolta. Dell’intero processo. «Pinna mi ascolti un attimo, io capisco la situazione di pressione che ha in questo momento e che ha da tanto tempo. Lei vede tutte queste persone che stanno qui?», e con la mano indica l’aula, «cosa pensa che siano venute a fare? Questa è tutta gente che vuole giustizia su questo caso». Pubblico e addetti ai lavori guardano ora il presidente, ora il testimone. «Giustizia non vuol dire per forza un condannato o un liberato o un assolto, vuol dire giustizia. Lei capisce qual è la spinta, qual è la pressione che c’è su tutti su questo caso? Il destino ha voluto che fosse lei il protagonista di tutta questa vicenda, perché lei è l’unico testimone oculare che abbiamo. Ha una responsabilità enorme da questo punto di vista. Non l’abbiamo voluta noi, non l’ha voluta nessuno: queste cose succedono nella vita. Ora lei questa responsabilità ce l’ha, la gestisca».
Per essere ancor più chiari, il magistrato fa capire a Pinna delle possibili conseguenze di una sua reticenza. «La esorto, poi può fare come crede, per carità…tanto è tutto previsto, gestito dalle legge, anche il suo diniego a rispondere. Le dico solo, c’è una forte richiesta di giustizia su tutto questo, perché c’è una persona che sta pagando questo fatto da tanti, tanti anni, è giusto che sia così? Forse sì, forse no. Oggi siamo in questa incertezza perché c’è un procedimento di revisione. Le cose potrebbero rimanere come sono, lo vedremo alla fine. Lei è il punto nevralgico. Si faccia carico di questa responsabilità perché altrimenti uscirà da qui insoddisfatto, male, nei suoi stessi confronti e nei confronti della sua famiglia, dei suoi cari. Lei deve adempiere a un dovere civico. Mi rendo conto che è qualcosa di più grosso ormai, lei lo sta vivendo in questo momento. Però le ricordo che sta svolgendo una funzione importantissima, che ha delle responsabilità. Lei era lì, grazie al cielo sta ancora qui, e in parte può raccontarlo. Faccia questa scelta. Il silenzio non è un atteggiamento costruttivo, anzi è eloquente di qualcosa di negativo. Veda un po’ lei. Mi ha seguito? È tranquillo? Lei sta parlando in maniera eloquente col suo viso preoccupato, ma questo purtroppo non aiuta il procedimento. Cerchi di farci capire qualcosa di più, perché le persone vogliono la verità, giustizia. La verità potrebbe essere quella della sentenza già emessa o potrebbe non essere quella. Siamo qui proprio per scoprirlo e questo dipende pure da lei. Lei ci deve dire la verità su quello che ricorda. Ha un forte freno inibitorio, un pochino lo deve rimuovere, altrimenti il resto è gestito dalla legge e lei sa benissimo come, non c’è bisogno che glielo ricordi io».
Il pg e il colpo finale
Il colpo finale è del pg Piantoni, che intuisce cosa faccia paura a Pinna e interviene facendo capire al testimone che non correrebbe alcun rischio penale nel caso decidesse di cambiare la versione data trent’anni prima e ancora nel 2020, perché se anche avesse «commesso un reato dicendo cose non veritiere e tacendo cose che sapeva o dicendo cose false al procuratore generale» e ai carabinieri a Cagliari, non sarebbe comunque punibile se in quel momento, a Roma, decidesse di «ritrattare il falso e dire il vero». Deve farlo però entro la fine di questo procedimento. Quindi «non deve avere la preoccupazione di smentire sé stesso in questa sede. Chiaro?».
La rivelazione
Pinna ha capito. E qualcosa accade. Qualcosa che ribalta tutti i processi precedenti, perché alla successiva richiesta del pg di spiegare il significato di una frase pronunciata da Pinna in auto con la moglie nel febbraio 2020 (“hanno detto anche delle verità e pure tante”), il superstite risponde così: «Ho visto la foto prima». Nell’aula il silenzio diventa ancora più marcato, ognuno allunga il collo quasi a volersi avvicinare all’uomo che parla al microfono sul banco dei testimoni. Che ribadisce: «Me l’ha fatta vedere Uda».
Due sole frasi sufficienti a far crollare oltre tre decenni di ricostruzione investigativa, processi e sentenze. Beniamino Zuncheddu fu indicato quale autore della strage da Pinna, che lo riconobbe tramite una fotografia mostratagli assieme ad altre dal pubblico ministero in fase di indagine; ma il sopravvissuto, dunque, aveva già visto quella immagine, perché gli fu messa davanti dall’investigatore. Episodio avvenuto «nella casa di mia suocera, in camera», conferma Pinna. Ben prima del confronto ufficiale col pm. Aveva ragione la pg Nanni, quando disse che la «prova regina», il riconoscimento eseguito in Procura, era «falsa, artefatta». L’iniziativa aveva condizionato il superstite e reso inattendibile la sua indicazione. «Non avevo mai visto prima Zuncheddu», ribadisce ora Pinna a Roma.
I passaggi decisivi
A maggior conferma, ecco le successive domande del pg e le risposte del testimone.
Il pg: «Quindi Uda ci ha detto che Zuncheddu era colpevole?»
Pinna: «Sì».
Il pg: «E voi sulla fiducia avete sopportato per trenta anni quello che avete sopportato? Che elementi avevate per ritenere che Uda avesse detto il vero, vi ha convinto in qualche modo? Vi ha detto quali erano le sue fonti di conoscenza o quantomeno in che cosa consistessero queste fonti? Lui che ne sapeva di chi era stato? Chi glielo aveva detto?»
Pinna: «Questo bisogna chiederlo a lui».
Il pg: «Glielo ha spiegato?»
Pinna: «No».
Il presidente della Corte: «Come mai si è fidato?»
Pinna: «Signor presidente è andata così purtroppo e io non so che cosa dire. È andata così».
La calza
Il secondo passaggio riguarda la calza che copriva il volto del killer. C’era (e dunque il killer non era riconoscibile) o non c’era (e quindi Pinna aveva visto l’assassino)? Il superstite sostiene ancora che «non c’era. Poi se ho sbagliato pazienza. Non c’era la calza da donna, se ho sbagliato pazienza, non so cosa fare». L’udienza viene sospesa. Quando riprende, Pinna cerca di spiegare perché fece il nome di Zuncheddu: «Pensavo di aver fatto una cosa giusta. Così avevo capito. Siamo rimasti con questa convinzione, tutta la famiglia».
Una convinzione legata alla famosa frase pronunciata dal pastore di Burcei contro Giuseppe Fadda che sparava alle vacche. E il pg chiede: «Pinna, a questo punto ce la dica tutta. Insomma, sta finalmente dicendo le cose come stanno: l’assassino aveva il volto coperto o no?» Pinna risponde così: «Secondo me...ho sbagliato persona». E Poi: «Aveva la calza, basta». E alla perplessità della Corte, che ricorda a Pinna di quanto detto poco prima (la calza c’era), il superstite risponde sostenendo: «Ero convinto di fare la cosa giusta, lo sbaglio che ho fatto è di aver ascoltato chi mi ha consigliato male. Era a volto coperto, aveva una calza da donna. Qualcosa del genere. Rosa. Non se l’è mai tolta. Non l’ho riconosciuto».
I dubbi
Sui dubbi riguardo la responsabilità di Zuncheddu, il testimone spiega di aver chiesto «più di una volta» a Uda «ma ne sei sicuro? Dicevo “guarda che non è così, forse non è lui”, e lui mi diceva che era così, non c’era nessuno sbaglio. Mi ha convinto, c’è poco da dire. Dopo che sono uscito dall’ospedale». Resta comunque il dubbio che Zuncheddu sia coinvolto, perché alla domanda «lei può escludere che la persona che le ha sparato fosse Zuncheddu?» formulata dell’avvocata di parte civile Alessandra Maria del Rio (per Pinna e la moglie Daniela Fadda, mentre le colleghe Francesca Spanu e Rossana Palmas seguono altre due figlie di Gesuino Fadda), il teste risponde così: «Secondo me è molto somigliante». Soprattutto nel «naso aquilino», che aveva intravisto da sotto la calza che copriva il volto dell’assassino. La testimonianza si conclude così.
Il poliziotto
Subito dopo però, quando già è notte, tocca al poliziotto Mario Uda, decisivo nelle indagini. L’ex investigatore della Criminalpol prende posto sul banco dei testimoni ed esordisce in modo chiaro: «Foto non gliene ho fatte vedere». Non è vero, dice, quel che ha sostenuto Pinna. La foto di Zuncheddu non gli fu mostrata prima dell’incontro ufficiale col pm. La ricognizione fotografica «che io ricordi avvenne a Sinnai», dove abitava, «e io non ero presente». Ma nel verbale c’è la sua firma. «Ho sempre operato con l’autorità del pubblico ministero e la direzione del mio dirigente», col cui via libera «incontrai Pinna in ospedale», tiene il punto Uda, che parla di una «tempesta mediatica» sulla vicenda. «Volevamo un primo approccio per comprendere che persona fosse, se dicesse la verità. Lo rividi dopo qualche settimana e nel mentre proseguiva l’attività di indagine. I sospetti e i primi indizi su Zuncheddu emersero per le voci che si raccolsero a Cuile is Coccus», l’ovile della strage, «territori gravati da usi civici dove non esistono confini ben definiti, dove ciascuno millantava o rivendicava il possesso e la possibilità di utilizzarli, dove dicevano che i Fadda fossero un po’ invisi a tutti per il modo con cui allontanavano il bestiame sparando. Dichiarazioni che furono confermate oltre che da Paolo Melis», uomo un tempo alle dipendenze dei fatti e teste fondamentale dell’accusa, «anche dai pastori che gravitavano e confinavano con Gesuino Fadda».
Le affermazioni di Pinna sulla presenza di una calzamaglia sul volto del killer «apparivano un po’ contraddittorie, le descrizioni indicavano particolari che facevano pensare» che il ferito avesse avuto «una visione completa di chi gli aveva sparato». Descrisse «le scarpe con la suola liscia, i capelli folti, il giubbotto bianco con un collo tipo coreano. Per noi era in grado di riferire molto, molto di più». Da lui andò «in ospedale solo una volta», a casa sua «qualche volta, era la famiglia che mi chiamava».
Alla richiesta di spiegare il significato della telefonata ricevuta da Daniela Fadda, figlia di Gesuino e moglie di Pinna, nella quale la donna gli diceva (proprio il giorno prima dell’interrogatorio del superstite a Cagliari nel febbraio 2020) «lui», cioè il marito, «sarà sempre dalla stessa parte», il poliziotto dice di non sapere cosa rispondere. In ogni caso, rispondendo all’avvocato difensore Mauro Trogu, ribadisce di essere «un uomo delle istituzioni, che ha trascorso la vita facendo il proprio lavoro e il proprio dovere. Posso aver fatto anche qualche errore, non ne dubito, posso aver anche avuto qualche defaillance, posso non aver fatto in maniera precisa qualcosa. Ma le assicuro che il mio obiettivo, la mia formazione culturale e professionale sono quelli».
Vicini alla fine
Sono passate le 23, l’udienza si chiude. Il processo di revisione ha intrapreso una strada chiara. Ma non è finito. Ci saranno altri testimoni, si terrà il confronto tra Pinna e Uda, dovranno parlare il pg e gli avvocati. Manca poco alla decisione.
9) Continua