Mentre si accingeva a stirare una camicia, scorse un portadocumenti nel taschino. Un cliente della lavanderia aveva dimenticato di toglierlo. Graziella Campagna, non per curiosità ma solo per cercare di capire di chi fosse l’indumento, tira fuori un foglio e legge: “Gerlando Alberti”. Come, quella camicia non era dell’ingegnere Cannata (il nome di copertura di Alberti che all’epoca era latitante)? La titolare della stireria, Franca Federico, le strappò di mano il foglio e la cosa sembrava essere finita lì. Era il primo giorno di dicembre del 1985.

Graziella, che aveva 17 anni, guadagnava 150mila lire al mese, non erano molti ma servivano al bilancio di una famiglia numerosa che non si poteva permettere di mandare a scuola i figli. E lei, nata e cresciuta a Saponara Superiore (Messina), era stata costretta ad abbandonare le Medie senza riuscire a prendere la licenza. Poco male, aveva trovato un lavoretto a Villafranca Tirrena, a qualche chilometro da casa, e con questo andava avanti. Un suo fratello più fortunato, Pietro, era diventato carabiniere e si era affrancato dalla vita grama del paese. Graziella aveva un buon rapporto con i suoi datori di lavoro, non si era mai lamentata né del misero stipendio né delle mansioni che svolgeva.

E non si era nemmeno preoccupata, non potendo immaginare chi fosse quell’Alberti della camicia, del modo brusco con cui la Federico prese il foglietto. Era un’adolescente a cui era stato impedito anche di sognare. Non la scuola, le amiche e gli amici, i primi amori e una vita degna di essere vissuta. No, per lei solo casa e lavoro da quando aveva 12 anni. Che ne sapeva di Gerlando Alberti jr, nipote dell’omonimo potentissimo zio conosciuto come ‘U paccarè (l’imperturbabile), mafioso della famiglia di Porta Nuova? Men che meno che fosse latitante e per quale ragione. Ignorava Graziella che in Sicilia, in qualsiasi provincia, città o paese, morire era facile, anche troppo. Soprattutto in quegli anni, in cui si veniva ammazzati per nulla ché tanto si sarebbe rimasti impuniti.

Non si poteva neanche definirla ingenua, questa ragazzina, semplicemente perché non era in condizioni di rendersi conto di quanto stava succedendo nella sua regione e di cosa stava per succedere a lei. Così, il 12 dicembre, finito di lavorare si incamminò verso la fermata degli autobus per poi rientrare a casa. Percorsi pochi metri, alcuni testimoni la videro salire a bordo di un’auto. Sono gli ultimi istanti di vita della ragazza. Graziella Campagna viene trovata morta il giorno seguente, a pochi chilometri dal paese. Le spararono cinque colpi di lupara che la raggiunsero alla testa, al torace, alle braccia, con le quali ha cercato istintivamente di proteggersi. Uccisa perché il rampollo di una famiglia di Cosa nostra, peraltro poco attrezzato rispetto all’autorevole familiare, aveva dimenticato un foglio nel taschino di una camicia. Cioè per nulla. Ma Alberti, latitante, il rischio di essere beccato non se lo poteva permettere. Per questo aveva chiamato Giovanni Sutera, compagno di latitanza, chiedendogli di aiutarlo a metter fine alla storia. In due, con altrettanti fucili, è stato semplice far tacere per sempre Graziella, la cui unica colpa era quella di non avere colpe.

Un’innocente, una delle tante vittime senza colpe di un gruppo di criminali che ha tenuto – e tiene ancora – sotto scacco una regione, parlando di rispetto e di onore, di regole e lealtà. Di tutte queste cose, nella Sicilia governata dalla mafia di Totò Riina, non c’è traccia. E ci sono anche poche tracce di giustizia. Nel 1990, al termine del processo di primo grado, Alberti e Sutera vengono assolti. Il movente di Alberti, ovvero che Graziella fosse a conoscenza della sua vera identità quindi una possibile minaccia, non è ritenuto sufficiente dal giudice. Nemmeno lui si era reso conto che in Sicilia si ammazzava per molto meno. Solo 14 anni più tardi, in Appello, i due sono condannati all’ergastolo, sentenza confermata in Cassazione. Per far muovere l’inchiesta nella giusta direzione, ci volle l’impegno di Pietro Campagna, che aveva svolto indagini autonome e condiviso i risultati con la Procura di Messina.

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