«Il Cannonau salverà il mondo». Se il principe Myškin di Dostoevskij avesse avuto davanti un calice profumato di rosso identitario sardo, probabilmente avrebbe riformulato la celeberrima frase. Il campo della fantaletteratura intriga, in effetti. Eppure c’è qualcosa di prodigioso nel Cannonau che va oltre le canoniche note di frutta, fiori e spezie.

RADICI «La bellezza del vino, che per me è sempre un Cannonau, serio in purezza, è data dal suo radicato valore di sorellanza e fratellanza che unisce e ci lega al territorio. Il vino esprime radici. Per me il Cannonau è terra, ed è suono». Piero Marras non usa uncinetti lessicali da tastevin. «Terra significa Sardegna; suono, musica e lingua sarda». Parla da grande artista ma anche da insospettabile comunicatore del vino, vicino a un elegante pianoforte nero a Poggio dei Pini. Per lui, (a cui hanno dedicato un vino nella Nurra mentre la cantina Fradiles di Atzara gli ha intestato con un’adozione ad honorem preziosi ceppi secolari di vite), il Cannonau si fissa nella memoria di una identità, una pausa di silenzio fuori dal chiasso frenetico della nostra epoca, dove passa il riscatto dall’appiattimento. Quell’inciviltà del rumore che il critico d’arte e intellettuale Gillo Dorfles ha definito horror pleni. E così le riflessioni di un cantautore straordinario tracciano traiettorie inaspettate per conoscere e narrare meglio questo vino e la sua gente.

IL SUONO «Per raccontare il vino ho bisogno di cantare, necessariamente, perché non scindo le due cose», attacca Piero Marras. «Io vengo da queste esperienze, di suono e di lingua. Il vino lo abbino al suono della lingua sarda». Precisamente, puntualizza «alla variante nuorese che è un po’ più ruvida. Il Cannonau ha questa genuina rudezza antica della campagna, lo stesso senso di selvatico che ha la lingua sarda». Insomma, quella del noto musicista è una visione laica del Cannonau, ma fortemente emozionale. Può essere intesa come una profonda indagine enologica e sociale che poggia su immagini e immaginazione. «La campagna sarda è il Cannonau», svela. «Ho passato la mia infanzia a Biscollai, un bosco a tre chilometri da Nuoro, ci andavo a piedi la mattina, camminavo immerso nella natura. Solo. Amavo questo stare isolato perché mi permetteva di ascoltare le voci della campagna. Ti abitui così a certi suoni, proprio come avviene per il gusto». C’è poi un luogo in quella visione aperta dove il brusio continuo della civiltà resta definitivamente fuori: «È sa pinnetta col suo sentimento di accoglienza, un mondo che forse oggi non c’è quasi più. Eppure io l’ho ritrovato a Bitti». Eccolo il prodigio di questo vino che la Sardegna ha il dovere di raccontare più a fondo. Un vino custode di valori ancestrali unici nell’Isola: la campagna, la condivisione, il silenzio, la pausa dal rumore globalizzato. Il Cannonau è proprio quell’intervallo perduto nell’epoca dei rumori caro a Gillo Dorfles. Tra i più geniali pensatori del Novecento, sincero appassionato di Sardegna e di Cannonau (docente di Estetica a Cagliari nei primi anni Settanta), lo studioso parla di «sollecitazioni sensoriali da cui siamo raggiunti e da cui non siamo più in grado di svincolarci».

Lecci, un itinerario all'interno di un bosco nell'Isola (archivio)
Lecci, un itinerario all'interno di un bosco nell'Isola (archivio)
Lecci, un itinerario all'interno di un bosco nell'Isola (archivio)

LA PAUSA Dice infatti Dorfles: «Basta andare per strada, entrare in un locale pubblico, in un teatro, in un caffè, recarsi in un luogo di villeggiatura balneare o alpina: la presenza continua, insistente, intransigente di rumori, di suoni, di immagini; la presenza d’un tessuto urbano inesauribile anche ai limiti della campagna, ci dicono già oggi - e certo ancora più domani - come la nostra vita di relazione sia sottoposta a sollecitazioni così costanti e inarrestabili, da far sì che sia quasi del tutto cancellata la presenza d’una pausa, d’una sosta, d’uno iato, tra cosa e cosa, tra evento ed evento, tra percetto e percetto» (L’Intervallo Perduto, 2006). L’Isola turrita, la terra del Cannonau, è quello spazio e quel tempo sospesi. La cesura persa altrove, di cui parla il critico d’arte. Un luogo di libertà e di rispetto da recuperare, per Marras. Che precisa: «Alla campagna non interessa come sei. Che abiti indossi. Comunque, stai sempre bene perché sei libero. C’è il rispetto per l’uomo. E non ti servono gli occhi, basta sentire gli odori per avere il contatto fisico con la vita, con gli oggetti». Il vino, il Cannonau, ti apre all’accoglienza «puoi anche non parlare, è il vino la carta d’identità tua e di chi ti riceve».

C’è poi la Nuoro di un recente passato raccontato nelle immagini che attraversano un calice di rosso. «Corso Garibaldi. Gli anni sono quelli in cui non esisteva Internet, ma non ne avevi bisogno perché sapevi tutto di tutti. C’erano le vasche, ovvero il web nostrano di allora a cui collegarsi. Ed era difficile che un nuorese non ti invitasse al bar. Ed era difficile non prendere un rosso, un Cannonau». Il recupero, non di facciata, di questi intervalli di vissuto serve al vino e al suo racconto. «Dobbiamo imparare a chiudere gli occhi, l’immaginazione ti salva. La stessa cosa vale per il vino. Se gli togliamo il mistero, è la fine. Questo è il modo più giusto per bere il vino sardo. Il rispetto del calice, protagonista di una terra dove abbiamo radici, il resto viene sempre dopo». Poi mette in guardia: «La mancanza di rispetto e di immaginazione, uccide il vino». Dunque chiudere gli occhi per salvarsi, suggerisce Marras. Per prendere le distanze da quell’orrore di troppo-pieno che aliena e appiattisce.

SAMBENE Nel vino identitario c’è il riscatto, il silenzio per un ritorno alle origini. «Entrare nel mondo del Cannonau significa entrare a casa», ripete il cantautore. «Uno spazio di accoglienza dove si incrociano e si raccontano le nostre esistenze. E come la musica anche il Cannonau ha un’infinità di sfumature cromatiche dai suoni chiari e scuri. "Su sambene" cantato in Abbardente. «Il vino - prosegue l’artista - è un amico incondizionato, ma ti devi comportare bene con lui. Io gli devo tanto. Mai avrei titolato in sardo un album, Abbardente». Sono i primi anni Ottanta, poveri di contenuti per molti cantautori italiani. «Anche io ho vissuto quelle fasi. Ma proprio allora ho realizzato che avevo una terra con i suoi suoni. Sono partito da quel suono della lingua, specialmente della mia variante, per dimostrare che non era museale. Volevo sostenere che anche in termini musicali quel suono poteva essere modernissimo. Dopo quell’album devo dire che c’è stata una generale consapevolezza dell’essere sardi anche nella musica». E continua: «La mia musica non puoi ascoltarla con un Barolo, è un tutt’uno col Cannonau». Vino che sfida il tempo perché si declina al presente, contemporaneo in ogni epoca, suggerisce Marras giocando sulla parola. «kannu (sardo) e now (inglese): quando ora». Lo stesso Dorfles riflette sulla blue zone di un rosso unico al mondo. Lui, che si spegne a marzo 2018 quando manca un mese per festeggiare i 108 anni, nell'intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo e pubblicata nel Corriere della Sera a febbraio di quello stesso anno, racconta la sua vita senza fine. «Ho sempre bevuto vino rosso. Ho una passione per il Cannonau. Una volta lo dissi in tv e vari produttori sardi mi mandarono a casa una cinquantina di bottiglie. Poi purtroppo hanno smesso».
Forse il Cannonau non riuscirà a salvare il mondo, ma almeno aiuterà a renderlo più accogliente. Certamente più sardo, direbbe Piero. E con lui anche Gillo.

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