Si erano conosciuti a Orgosolo nel 1965. Giovanna Marini era accompagnata da Franco Coggiola, importante etnomusicologo e grande amico di Peppino Marotto. Era un incontro tra poeti, quelli del gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano, straordinario laboratorio di ricerca etnomusicale che aveva raccolto e registrato in giro per l’Italia i canti della tradizione e quelli di protesta tramandati fino ad allora solo oralmente. Canti e ballate portati sul palco dai cantautori impegnati assieme ai poeti popolari, e tra questi ultimi i Pastori di Orgosolo, con Peppino Marotto, erano tra i più considerati.

Tra la signora del folk di battaglia e il cantore delle classi sfruttate nacque una solida amicizia e s’instaurò un’intensa collaborazione artistica durata fino alla morte di lui. «Amico e maestro». Così Giovanna Marini definiva il poeta e sindacalista della Cgil assassinato a Orgosolo con sei colpi di pistola il 29 dicembre del 2007, in pieno centro e in pieno giorno. “Quando in un paese si uccidono i poeti vuol dire che quel paese è malato”, scrisse lei in un articolo pubblicato sul Manifesto due giorni dopo l’omicidio. Usò le stesse parole pronunciate dopo l’assassinio di Pier Paolo Pasolini, nel 1975. «Come Pasolini, Peppino era un profeta per la sua gente».

Peppino Marotto, classe 1925, ucciso a Orgosolo nel dicembre 2007
Peppino Marotto, classe 1925, ucciso a Orgosolo nel dicembre 2007

Peppino Marotto, classe 1925, ucciso a Orgosolo nel dicembre 2007

Giovanna Marini è scomparsa l’8 maggio scorso a 87 anni. Romana, famiglia di musicisti, solidissima formazione accademica nelle aule del Conservatorio di Santa Cecilia, studi di musica medioevale e rinascimentale -, è stata tra i più grandi compositori contemporanei; la musicista che ha innestato le forme colte nella tradizione; la ricercatrice che ha salvato dall’oblio le ballate popolari e i canti di protesta, a cominciare da quelli delle mondine.

Dopo quella prima visita era tornata a Orgosolo tante e tante volte. «Venivo ogni anno a trovarlo», ha raccontato in un’intervista al nostro giornale dopo la morte di Peppino Marotto. «Gli portavo i miei studenti italiani e francesi, in genere durante la settimana di Pasqua. Volevo che ascoltassero quel che Peppino aveva da dire, le storie che raccontava. Volevo che incontrassero il poeta che aveva uno straordinario istinto per la parola, l’amore per la sillaba». Giovanna Marini ricordava la calma, la compostezza, la dolcezza dell’amico. «A me, presa dalla nevrosi della vita in città, il suo approccio zen infondeva una tranquillità e una pace infinite. Lo chiamavo “il mio Lexotan”».

Era tornata a Orgosolo nove mesi dopo la morte di Peppino Marotto, per rendere omaggio all’amico alla maniera dei poeti, sul palco, davanti al pubblico dell’auditorium comunale.

C’è un’eredità lasciata da Peppino Marotto, raccontava. «Le sue poesie, la storia in versi. Lui ha cantato i Quaderni di Gramsci, la lotta dei contadini contro i baroni, le rivendicazioni della classe operaia, i valori della Resistenza. Questo è il patrimonio che ha lasciato, la testimonianza che non va perduta».

Mille ricordi. Giovanna Marini ha raccontato dei lunghi discorsi, dei consigli che gli chiedeva per telefono, delle tournée, e del Requiem che si allungò di venti minuti. «“Delle cinque stanze”, si chiamava; un’opera che è di conforto ai vivi, non ai morti. E Peppino aveva una parte». Ricordava quei giorni del 1985, quando a Parigi venne presentata l’opera che le era stata commissionata l’anno prima dal Festival di musica di Saint-Denis e poi le tournée ad Amburgo, Vienna e Roma. «Un’opera per orchestra, con un coro tedesco che canta la messa in latino e il coro del Testaccio che canta quella in italiano. Un viaggio dell’uomo in cinque tappe: la fame, la sete, la guerra, il freddo e poi la quinta stanza, quella del non-ritorno, del vuoto. La parte di Peppino era proprio qui, due minuti giusti».

«Due minuti», gli aveva detto Giovanna Marini al telefono. «Vieni per cantare il Requiem?».

Peppino Marotto aveva risposto subito di sì, «per te anche due ore, Giova’». E lei, che lo conosceva ormai da vent’anni e l’aveva visto intonare i suoi versi durante i concerti fatti insieme in tutta Europa, un po’ l’aveva messo in conto che sarebbe finita alla sarda.

«Finì che il mio “Requiem delle cinque stanze” invece che un’ora e dieci minuti durò un’ora e mezzo. Lui doveva usare la sua voce come un clarinetto, due minuti giusti in mezzo alla partitura. Invece, alla prima, quando il direttore d’orchestra gli diede il via convinto che rispettasse le quattro battute, cominciò prima con un sonetto di ringraziamento a me, poi con uno di saluto al pubblico e così via. Venti minuti buoni. Mi spezzava completamente il ritmo, ma al pubblico piacque subito e così...».

Rideva divertita, Giovanna Marini. «Quella volta della prima, quando cominciò a cantare i suoi sonetti improvvisati, il direttore d’orchestra si girò verso di me. “Che facciamo?”, sillabò tutto agitato. “Manda la tromba”, gli suggerii a gesti. Beh, Peppino si fermò, ma solo un momento. “A me”, disse, “mai una tromba mi ha fatto tacere”. E riprese a cantare i suoi versi».

© Riproduzione riservata