Ci fa ridere, piangere, innamorare da sessant’anni. E anche se in parte mostra ormai i segni del tempo, “Colazione da Tiffany” non ha ancora finito di esercitare il suo fascino gentile sugli spettatori. Dal debutto nei cinema americani, il 5 ottobre 1961 (in Italia arrivò un mese dopo), il film diretto da Blake Edwards e dominato, più che interpretato, da Audrey Hepburn resta uno dei più amati di sempre. Vero oggetto di culto per milioni di appassionati della commedia leggera: che, a dispetto della leggerezza che la definisce, è uno dei generi più complicati, perché circoscritto da frontiere molto labili, oltre le quali si sconfina nei territori del cattivo gusto e della banalità.

Il segreto del suo successo straordinario, tra tante pellicole simili, è un po’ un mistero e il frutto di varie casualità: come certe ricette molto ben riuscite, anche se non si sa esattamente perché. Colazione da Tiffany è di fatto la storia di un tradimento palese e felice: a essere tradito è il romanzo originario di Truman Capote, al quale il film promette una fedeltà iniziale che si fa via via sempre meno sincera, fino allo stravolgimento conclusivo (spoiler per chi non l’ha letto: nel libro il lieto fine non c’è).

Una donna fuori dagli schemi

In entrambe le opere è centrale la figura di Holly Golightly, giovane donna anticonformista che compie una scalata sociale tutta sua, dalla povertà della provincia americana ai soldi facili newyorchesi (di cui la gioielleria di Tiffany è un simbolo eloquente), ma con metodi per così dire poco convenzionali, e talvolta ancor meno leciti. Non è certo lo charme di gran classe e ironico di Audrey Hepburn l’incarnazione ideale del personaggio di Capote, che infatti – quando cedette i diritti del romanzo alla Paramount – chiese che la protagonista fosse Marylin Monroe. Ben altra fisicità e sensualità. Avrebbe restituito a Holly il lato “maledetto” immaginato dal suo primo creatore.

Il ruolo le fu proposto, ma la convinsero che fosse sconveniente recitare in pratica la parte di una escort. Così scelse una produzione teoricamente di maggior livello, “The misfits” (in italiano “Gli spostati”), sceneggiatura di Arthur Miller, all’epoca marito di Marylin. Oggi nessuno ricorda più quella pellicola, se non perché fu l’ultima completa da lei girata. Non andò molto meglio a Shirley MacLaine, la seconda attrice interpellata per “Tiffany”, che anni dopo – con la sua nota arguzia – si sarebbe pubblicamente pentita di essere andata invece a recitare in “Two loves” (“Salverò il mio amore”), da lei stessa definito “un film terribile di cui nessuno ha mai sentito parlare”.

Il tentativo con MacLaine fa capire però che la produzione stava ormai cercando più una donna di spiccata ironia che una bomba sexy: e con Audrey Hepburn fecero bingo. È banale dire che la sua Holly sia diventata un’icona immortale di eleganza quasi involontaria, naturale; è banale ma è vero. I fan dell’attrice potranno forse conoscere qualcosa di più della sua vita se vedrà la luce la serie “Audrey”, tratta dalla biografia scritta dal suo figlio italiano, Luca Dotti: un progetto annunciato qualche anno fa, e ripreso di recente. “Colazione da Tiffany” non è stato il suo unico film importante; ma, nell’immaginario di molti, Hepburn si identifica con la giovane che sbocconcella una pasta mentre all’alba scende da un taxi davanti a Tiffany. È la scena iniziale del film, e a renderla immortale dà un enorme contributo un semplice pezzo di stoffa: il celebre tubino nero da lei indossato, creato appositamente da Givenchy. Icona a sua volta, tanto che nel 2006 è stato venduto all’asta da Christie’s per più di 900mila dollari.

L'insegna del negozio di Tiffany sulla Fifth Avenue a Manhattan (foto Ansa/Archivio US)
L'insegna del negozio di Tiffany sulla Fifth Avenue a Manhattan (foto Ansa/Archivio US)
L'insegna del negozio di Tiffany sulla Fifth Avenue a Manhattan (foto Ansa/Archivio US)

Del resto la popolarità di “Breakfast at Tiffany’s” ha reso possibili vari altri casi di grande “plusvalore”, compresa un’eccezionale pubblicità per la gioielleria. La casa di Manhattan in cui teoricamente viveva Holly (in realtà le scene interne furono girate a Hollywood, è vera solo la facciata), sulla 71esima strada, nel 2011 fu venduta per 5,8 milioni di dollari. Nello stesso anno, la riedizione degli occhiali scuri di Oliver Goldsmith indossati da miss Golightly, per quanto semplici, fu messa in vendita a 440 euro l’uno.

La lettura psicologica del look

Su quel tubino nero, per altro, si sono cimentati anche illustri psicologi, che hanno dato una lettura interessante di quella che sembra solo una scelta di stile. Il colore, hanno sottolineato, serve anche a proteggere la giovane Holly dallo stress emotivo esterno, creando una barriera tra lei e il resto del mondo. “Un modo per proteggere le sue emozioni e i suoi sentimenti”, si legge in un saggio pubblicato pochi anni fa negli Stati Uniti, “nascondendo le sue insicurezze e vulnerabilità”.

Ma Audrey Hepburn è in realtà il vertice più scintillante di un triangolo che, nel suo complesso, fu decisivo per decretare la fortuna di Colazione da Tiffany, e che si completa col già citato Blake Edwards e con Henry Mancini. Il primo, ecco un’altra delle casualità che hanno reso questo film un capolavoro memorabile, inizialmente non doveva essere il regista. Lo sceneggiatore George Axelrod pensava a John Frankenheimer, ma poi si puntò su un nome più esperto. E Edwards (Hollywood Party, Operazione sottoveste, Victor Victoria: e soprattutto è l’ideatore dell’incredibile personaggio della Pantera rosa) aggiunse il suo tocco raffinato alla sceneggiatura.

Henry Mancini invece era il re delle colonne sonore, e infatti quella di “Tiffany” vinse l’Oscar. Fu premiata, come miglior canzone originale, anche “Moon River”, tema centrale del film. Eppure – ennesima circostanza fortunata – la Paramount stava per toglierla. Si dice, ma forse è leggenda, che a opporsi duramente (“Dovrete passare sul mio cadavere”) fu proprio Audrey Hepburn, che in una scena memorabile canta quel brano accompagnandosi solo con una chitarra e con la sua struggente malinconia. Oggi è inimmaginabile Colazione da Tiffany senza le musiche di Mancini.

Le accuse di razzismo

Si deve a Blake Edwards anche un personaggio che ebbe grande successo, ma da qualche anno porta al film critiche addirittura di razzismo: mister Yunioshi, condòmino giapponese di Holly Golightly, interpretato da Mickey Rooney grazie a un elaborato lavoro di trucco. Oggi indubbiamente quella figura appare troppo caricaturale; ma è corretto valutare con la sensibilità attuale scene girate nel 1960, quando Pearl Harbor e Hiroshima erano ferite ancora troppo fresche nei rapporti Usa-Giappone? Sta di fatto che è capitato, nel 2008, che una proiezione pubblica del film sia stata annullata, a Sacramento, per le proteste della comunità asiatica. E lo stesso Rooney si è sentito in dovere di chiedere scusa a chi si fosse sentito offeso. Si cita persino un film con Bruce Lee in cui l’eroe delle arti marziali si innervosisce guardando alla tv la scena di Yunioshi, vista come una derisione di tutti gli asiatici.

La considerazione del contesto storico-sociale dell’epoca è opportuna anche quando si discute del modello femminile rappresentato da Holly Golightly. È vero che la protagonista del romanzo, rispetto alla “parente” del film, è una donna più moderna ed emancipata. Ma non è banale, per un’opera hollywoodiana di quel periodo, che tutti gli uomini vi appaiano come satelliti di un unico sole femminile. Un sole col tubino nero e gli occhiali scuri, che si cela più di quanto si svela.

La scena finale del film (foto archivio US)
La scena finale del film (foto archivio US)
La scena finale del film (foto archivio US)

Certo, il finale romantico contraddice un po’ tutto il resto: con l’inseguimento e il bacio sotto la pioggia, lo scrittore spiantato Paul Varjak (interpretato da George Peppard, a sua volta favorito dal rifiuto di un collega più famoso, Steve McQueen) sembra addomesticare Holly, insieme al suo gatto senza un vero nome, e ricondurla al destino tradizionale di una donna che possa realizzarsi solo accanto a un uomo. Ma anche se la Paramount ci ha risparmiato un sequel – per fortuna: quasi mai capolavori simili concedono il bis – possiamo immaginare miss Golightly comunque libera e capace di scegliere la sua vita, senza che nessuno la scriva al suo posto: non un romanziere belloccio e fallito, e neppure lo sceneggiatore di un film.

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