Gretel Bergmann ricordò che, in effetti, «Dora si comportava in maniera molto strana. Noi ragazze della squadra non l’abbiamo mai vista nuda sotto la doccia e ci chiedevamo perché dovesse depilarsi le gambe tutti i giorni». Seppe solo nel 1966, dopo aver letto la notizia sulla rivista Time, che in realtà Dora era un uomo. Gretel aveva 95 anni ed era passato tanto tempo dal giorno in cui, ragazzina di origine ebraica dal promettente talento per il salto in alto, fu costretta ad abbandonare il sogno di conquistare la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Un mese prima dell’inizio dei Giochi aveva ricevuto una lettera in cui le veniva comunicata l’esclusione dalla squadra tedesca «per scarso rendimento». Eppure nel 1935 aveva vinto l’oro ai giochi di Württemberg, e l’anno seguente aveva eguagliato a Stoccarda il record tedesco nella sua specialità, saltando un metro e sessanta. Capì solo in quel momento che in realtà era stata usata: il Reich l’aveva convocata solo perché temeva ritorsioni da parte del Comitato olimpico internazionale e il boicottaggio degli Stati Uniti. Alla vigilia delle Olimpiadi, infatti, il Cio e Washington avevano fatto chiaramente capire che non sarebbe stata ammessa l’esclusione degli atleti ebrei e di colore, perciò la Germania - che non voleva perdere l’occasione di mostrare al mondo la grandezza della razza ariana e del nazionalsocialismo - s’adattò.

Solo in apparenza, però, almeno per quando riguardava Gretel. Quando a Berlino furono sicuri che la delegazione americana era in viaggio per l’Europa, la giovane campionessa - allora ventiduenne - ricevette la lettera di benservito. Al suo posto venne chiamata Dora Ratjen, classe 1918, atleta ariana di Brema, che non riuscirà a salire sul podio (arrivò quarta), ma che due anni dopo - ai campionati europei di Vienna - vincerà la medaglia d’oro saltando l’asticella a 1,77 e stabilendo il record mondiale.

Un record che per la Germania nazista era motivo di gloria, almeno fino al momento in cui le ragioni della propaganda non si scontrarono col destino di Dora, ragazza sulla carta d’identità, maschio nel suo sentire più profondo.

Accadde che, pochi giorni dopo il successo di Vienna, durante il viaggio di ritorno a casa Dora fu fermata dalla polizia alla stazione di Magdeburgo. Era stata segnalata da due donne, insospettite da questa strana passeggera che indossava la gonna ma che sembrava un uomo. «Ha la barba», dissero al poliziotto. Era stato quello l’unico giorno in cui, da quando aveva poco più di dodici anni, non si era rasata il viso. Chissà, magari non per pigrizia, ma perché cercava inconsciamente di liberarsi dalla gabbia che la teneva prigioniera. Davanti al poliziotto che l’aveva arrestata ammise di essere un uomo e - fu segnalato nel verbale - disse di essere «contento» di poter dichiarare finalmente la sua identità. Non Dora, ma Heinrich.

«Ho indossato vestiti da ragazza dalla mia infanzia in poi - ha spiegato Heinrich Ratjen a Der Spiegel nel 1957 -. A undici, dodici anni ho cominciato a essere consapevole che non ero una donna bensì un uomo. Ma non ho mai chiesto ai miei genitori perché, pur essendo un maschio, dovessi indossare abiti femminili». Raccontò che quando venne al mondo, il 20 novembre 1918, l’ostetrica aveva detto «È un maschio» senza troppa convinzione. «No», si era corretta, «dopotutto è una femmina». E da femmina il bambino fu cresciuto, battezzato col nome imposto dal parroco. Il giorno del suo arresto, fu sottoposto a una visita medica che non sciolse i dubbi («Genitali ambigui», era il referto) e denunciato per frode.

Non è mai stato accertato chiaramente se il Reich conoscesse l’identità sessuale dell’atleta che nella categoria femminile aveva rappresentato la Germania alle Olimpiadi e ai campionati europei. Molti anni più tardi, sempre nell’intervista rilasciata a Der Spiegel, Heinrich Ratjen disse che aveva partecipato alle Olimpiadi con la squadra femminile «su richiesta della Gioventù hitleriana». Sia come sia, quella era una storia che avrebbe potuto creare non poco imbarazzo alla Germania. Così si decise di allontanare Ratjen, che tornò a casa dei genitori, e gli si concesse di cambiare il nome: Heinrich all’anagrafe e sui documenti d’identità. Tutte le medaglie vinte furono ritirate, mentre solo nel 2009 - 73 anni dopo - Gretel Bergmann vedrà riconosciuto dalla federazione tedesca di atletica il suo record femminile di salto in alto.

Heinrich Ratjen è morto nel 2008. Una storia, la sua, molto lontana nel tempo eppure, per certi versi, di grande attualità in una società come la nostra che ancora affronta il tema dell’identità di genere con pregiudizio, ignoranza e insensibilità. Il mondo dello sport è sovente lo specchio deformante di tutto ciò. È vero che quelle di Tokyo 2020 sono state le Olimpiadi più queer della storia (duecento gli atleti dichiaratamente Lgbt), ma l’inclusione non vale per le donne - tante, tantissime nel mondo - che nascono con un tasso di ormoni maschili elevato.

Queste sono state le Olimpiadi del testosterone che hanno fermato le atlete affette da iperandroginismo, condizione che, è stato stabilito dalla federazione internazionale di atletica, darebbe un significativo vantaggio nella prestazione. È stato, per esempio, il caso di Christine Mboma e Beatrice Masilingi che non hanno potuto correre i 400 metri, ma si sono dovute adattare ai 200 (lo stop, curiosamente, vale solo sulle distanze superiori ai 400: al di sotto, l’ormone non darebbe più vantaggi). È il clamoroso caso della sudafricana Caster Semenya, regina nel mezzofondo, due ori olimpici, che è stata costretta a cedere il passo. La storia della mezzofondista ugandese Annet Negesa che ha accettato di sottoporsi all’asportazione chirurgica delle gonadi per mantenere l’identità sessuale femminile e poter gareggiare. «Come possono i nostri corpi essere tutti uguali?», ha detto la velocista indiana Dutee Chand, nata con un livello molto alto di testosterone, esclusa e poi riammessa alle competizioni dopo una sentenza del Tribunale arbitrale dello Sport. E come mai, se anche gli uomini nascono con valori di testosterone più o meno alti, l’esclusione dalle competizioni sportive vale solo per le donne?

© Riproduzione riservata