Era un eroe conclamato, ora è un considerato un terrorista. Nel 2004 lo fotografavano sul red carpet di Hollywood: ad aspettarlo c’erano i flash dei fotografi delle pagine di spettacolo e cultura, c’era addirittura la Casa Bianca che gli appuntava le medaglie al valore civile. Adesso è circondato dalle guardie penitenziarie che l’ammanettano in gabbia dove vive con una tuta rosa. Perché il rosa è la divisa dei carcerati di Mageragere, la Guantanamo del Ruanda. Ma di dolce e di roseo c’è poco nel futuro che l’aspetta: perché Paul Rusesabagina, 67 anni, lo Schindler nero, il Perlasca afro raccontato dal bellissimo film “Hotel Rwanda” (candidato a tre Oscar), è stato condannato per terrorismo, una sentenza che in qualche modo proverà a uccidere la sua immagine d’eroe. Era un uomo qualunque Paul Rusesabagina, prima dell'inizio del massacro: un direttore d'hotel a Kigali, un benestante hutu (sposato con una tutsi) abituato ai compromessi. Ma che poi, di fronte alla follia che si è impossessata del suo Paese, non si è fermato di fronte a nulla pur di salvare la famiglia e altri 1.200 cittadini tutsi, che trovarono rifugio nell’albergo.

In carcere dall’agosto scorso, da quando cioè i servizi segreti ruandesi l’hanno fatto rientrare dall’esilio texano di San Antonio, è accusato di omicidio, traffico d’armi, terrorismo. Soprattutto, ed è per questo che è stato condannato a 25 anni di carcere, è accusato di essere una mente politica dell’opposizione di governo e il finanziatore della sua componente più violenta, il Fronte di liberazione nazionale, responsabile di due attacchi nel 2018. Lui hutu e sua moglie tutsi, Rusesabagina paga le critiche al presidente Kagame, al potere da più di dieci anni: ritiene, infatti, che le accuse contro di lui siano politiche. Dopo l’uscita del film, che ha goduto di una notevole e giusta notorietà internazionale, Rusesabagina ha infatti criticato fortemente il presidente Kagame, accusandolo di autoritarismo e di alimentare sentimenti anti-hutu. Più che di terrorismo, alla fine, incolpano l’albergatore di non essere stato affatto l’eroe narrato nel film. Ma di avere usato la sua popolarità per riscrivere la storia. E avere fatto soldi offrendo camere a pagamento, mentre diceva di salvare vite nei giorni dei massacri del 1994, un milione d’ammazzati a colpi di machete con l’Hotel des Mille Collines diventato il rifugio di hutu e tutsi. La pellicola ha un valore civile innegabile: il genocidio in Ruanda, infatti, fu compiuto senza che il Consiglio di sicurezza dell’Onu muovesse un dito, anche perché le immagini e le testimonianze di quell'inferno non trovarono adeguata diffusione nei mass media occidentali. Certo, però, che stupisce che in un’epoca in cui si liquidano 62 anni di Rivoluzione Cubana come “dittatura liberticida” nessuno abbia sentito il bisogno di sollevare, perlomeno, qualche perplessità.

Eroe stanco, minacciato, costretto a fuggire, dopo i massacri Rusesabagina aveva trovato asilo a Bruxelles, diventando cittadino belga e vivendo come tassista. Ma anche dagli ex padroni coloniali, dove vivono molti ruandesi, l’aria s’era fatta pesante: strani furti e stranissimi incidenti l’avevano convinto a fuggire in Texas, dove si sentiva al sicuro prima di finire nella trappola ed essere attirato in Africa con la scusa di una finta conferenza in Burundi, organizzata da un finto prete. In quell’occasione, infatti, si imbarcò su un charter, pare utilizzato già altre volte dal governo ruandese: lui non lo sapeva e all’atterraggio, a Kigali, scattarono le manette. Il Parlamento europeo ha votato un documento per chiederne la scarcerazione, il Congresso americano ha scritto a Kagame, le ambasciate occidentali hanno seguito il processo. Il regime, però, ha respinto tutti. Nell’isolamento del carcere, gli concedono due ore di luce e una d’aria al giorno, cinque minuti di telefonate alla settimana, nessuna possibilità di parlare coi suoi legali. “C’è sempre posto”, ripete nel film Don Cheadle, l’attore che impersona lo Schindler del Ruanda. L’unico posto che gli hanno riservato, per il momento, è in una cella per almeno 25 anni.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

© Riproduzione riservata