Dieci, quindici, forse venti o ancora di più. Si fa fatica a Carbonia, a tenere il conto degli incendi appiccati alle porte della città da quando è arrivato il gran caldo accompagnato dalle folate di vento. Al massimo si può fare un raffronto con gli anni passati, magari ricordando quando qualcuno ha quasi rischiato la vita per quelle fiamme che hanno lambito una volta i pini di via del Minatore, altre volte le case che si affacciano su immensi sterrati incolti che, da decenni, si attende di vedere trasformati in parchi urbani.

Oppure si può parlare della vicinanza dei roghi ai campi rom, soprattutto uno, quello detto “Comunale” perché realizzato dal Comune per permettere di vivere in un luogo dignitoso ai nomadi che nomadi non sono dato che vivono in città da decenni. Un luogo che dignitoso è stato giusto il tempo della stretta di mano con chi ha firmato un accordo con il Comune prima di metterci piede, un accordo che prevedeva il rispetto delle regole di base: rispettare il campo, pagare le utenze, mandare i bambini a scuola, non spargere rifiuti. Insomma tutte quelle regole disattese sin dai giorni successivi quando il campo, spogliato da tutto ciò che è stato possibile smontare e rivendere, ha preso le sembianze di un luogo bombardato e dimenticato da Dio e dalle istituzioni.

Perché citare i rom mentre si parla degli incendi? Perchè è diventato un luogo comune commentare i caldi pomeriggi estivi trascorsi respirando fumo e osservando vigili del fuoco, forestale, volontari e privati cittadini dannarsi per cercare di spegnere il fuoco, liquidando il fatto con la frase: “Sono stati i rom”. Come se questa fosse la soluzione al problema. Sono stati i rom dunque pazienza se ci sono persone che hanno rischiato la casa o forse la vita. Sono stati i rom dunque pazienza se rischia di veder sparire il monumento naturale fatto dai pini di via del Minatore, che narrano, ciascuno, la storia di un minatore morto in miniera (quanti cittadini lo sanno?).

Fiamme\u00A0a Carbonia (foto archivio L'Unione Sarda)
Fiamme\u00A0a Carbonia (foto archivio L'Unione Sarda)
Fiamme a Carbonia (foto archivio L'Unione Sarda)

Nessuno pone giusto un paio di domande. Sono stati davvero i rom? Quali prove ci sono? Le stesse che stabiliscono che sono solo i rom a riempire questo angolo di Carbonia di ogni genere di rifiuto? E se non fossero stati i rom? Quali azioni si stanno mettendo in essere per appurarlo e trovare una soluzione? Perché non ci sono le telecamere, quelle che compaiono in ogni programma elettorale ma che nessuno riesce a far funzionare? Sono stati i rom? Perché nessuno è mai andato, regolamento alla mano, a dire a queste persone che cosa si rischia a non rispettare le regole? O, ancora meglio, perché in questi decenni nessuno ha tradotto questo regolamento in realtà? Sono domande legittime che qualcuno dovrebbe porsi a livello istituzionale. Perché la frase “sono stati i rom” non risolve il problema. Al massimo avvelena gli animi in una città dove la tensione è già alle stelle per i mille problemi quotidiani acuiti dalla pandemia. Al massimo può portare qualche esagitato a pensare di risolvere il problema senza ricorrere alle istituzioni. Basta fare un giro sui social per capire quanto sia concreto il rischio che parta una caccia al colpevole. E a certe persone non basta portare le statistiche. Non basta mostrare che a Carbonia quando gli incendiari sono stati beccati e consegnati (per qualche mese) alla giustizia raramente provenivano dai campi rom. 

Controlli (foto archivio L'Unione Sarda)
Controlli (foto archivio L'Unione Sarda)
Controlli (foto archivio L'Unione Sarda)

Forse è davvero il caso di porsi il problema. Partendo perché no dai campi rom,dove si deve assolutamente trovare il modo di far rispettare le regole con la stessa inflessibilità che si riserva a tutti gli altri cittadini che pagano le tasse, che vengono sanzionati se sbagliano la raccolta differenziata, che mai e poi mai potrebbero sognarsi di non mandare i figli a scuola. Ma poi occorre volgere lo sguardo anche altrove. Alle erbacce che crescono indisturbate non appena ci si allontana dal centro. Alla mancata sorveglianza che ogni volta porta a a dire «Ah, se ci fossero state le telecamere». A un mancato sistema di prevenzione che deve passare anche dal fare in modo che i volontari dell’antincendio non debbano ogni anno implorare un aiuto economico per svolgere il lavoro che donano alla comunità. Fino a unirsi e invocare la giusta pena, fatta di severe sanzioni e carcere per chi mette a repentaglio la vita delle persone e del verde. È un’utopia? Magari no.

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