Antidiva per eccellenza, istintiva, volitiva, irriverente. Una delle più grandi attrici di sempre del cinema italiano: Anna Magnani ancora oggi resta la regina dello schermo. Se ne è andata mezzo secolo fa, il 26 settembre 1973 stroncata da un tumore al pancreas e proprio quella sera in Tv veniva trasmesso il suo ultimo film “1870”. Una coincidenza che è bello pensare fosse un modo, forse inconsapevole, per celebrarla e renderle un ultimo omaggio. Lo stesso riconoscimento che l’associazione culturale cinematografica di Oristano, Band Apart le tributa dedicandole una rassegna in quattro serate, ogni martedì alle 20.45, proiettando alcuni suoi film.

Anna Magnani era romana nel profondo dell’animo, nata il 7 marzo 1908 il suo volto tragico, la sua interpretazione sanguigna, il suo temperamento passionale l’hanno resa una icona incontrastata del cinema del Dopoguerra. Figlia di una ragazza madre, una sarta, che dopo la sua nascita si trasferisce ad Alessandria d’Egitto, viene allevata dalla nonna e dalle cinque zie. Il padre è rimasto a lungo sconosciuto e chissà se questa situazione e l’abbandono da parte dei genitori hanno segnato la personalità della ragazza che dopo le scuole ha frequentato otto anni alla scuola di musica Santa Cecilia, due all'accademia d'arte drammatica diretta da Silvio d’Amico. Nel 1927 l’iscrizione alla scuola di recitazione Eleonora Duse, la futura Accademia nazionale d’arte drammatica e la conoscenza con Paolo Stoppa, con il quale sale sulla ribalta dell’avanspettacolo, dove lavora al fianco anche di Aldo Fabrizi e Totò. Diventa celebre come sciantosa anche grazie alle sue doti canore, sposa il regista Goffredo Alessandrini, poi il grande amore per Massimo Serato (che la lascerà presto) da cui nasce il figlio Luca.

Debutta nel cinema con "La cieca di Sorrento" (1934), poi il primo ruolo significativo nella parte di un'artista di varietà in "Teresa Venerdì" (1941) di Vittorio De Sica.

Anna Magnani è una che vive i suoi personaggi ed è la sua capacità mimetica di entrare nel cuore delle donne della sua carriera a costruirne la figura della popolana tutto cuore, della “lupa romana” come la chiamerà l’ex presidente del festival di Cannes Gilles Jacob, di “Nannarella” col suo diminutivo più celebre. Sarà per sempre la Pina mitragliata dai nazisti in "Roma città aperta" (1945), film cardine del neorealismo, che la consacra nell’olimpo del cinema facendone l'attrice italiana più popolare nel mondo.

Anna Magnani (foto archivio Unione Sarda)
Anna Magnani (foto archivio Unione Sarda)
Anna Magnani (foto archivio Unione Sarda)

Poi il successo diventa internazionale, la rivista Time la definisce "divina, semplicemente divina", Eugene O'Neill stravede per il suo talento quando sbarca a Hollywood per "La rosa tatuata" di Daniel Mann dal testo del celebre commediografo. E il 21 marzo 1956 arriva l’Oscar, prima (e unica) attrice di lingua non inglese a vincere la statuetta. A Hollywood lavorerà altre tre volte, trionferà con "Mamma Roma”, indosserà nuovamente i panni della sciantosa in "Risate di gioia" di Monicelli, tornerà al teatro con Zeffirelli e Menotti. Tutto questo sarà la sua gloria sullo schermo e sulla scena, in un contrasto drammatico con la sua vita privata. Anna Magnani non lo ammetteva volentieri ma era in cerca d'amore fin dalla culla quando aveva capito che “non ero nata attrice. Avevo solo deciso di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza di meno. Per tutta la vita ho urlato con tutta me stessa per questa lacrima, ho implorato questa carezza". Amori finiti male, una relazione burrascosa con Roberto Rossellini, un figlio malato e amatissimo; una solitudine riconosciuta perché, come spesso sosteneva lei, “non aveva trovato nessuno che sapesse imporsi al suo carattere generoso, forte ma fragile, vulcanico ma sempre smarrito. Cinquanta film e una stella sulla Walk of Fame di Hollywood non sono bastati a regalarle serenità.

Lʼassociazione cinematografica Band Apart di Oristano celebra lʼarte dellʼattrice romana attraverso la rassegna “Nannarella. Omaggio ad Anna Magnani” suddivisa in quattro serate: in proiezione Campo de’ fiori (1943, 95') di Mario Bonnard; Il bandito (1946, 83') di Alberto Lattuada; La carrozza d’oro (1952, 103') di Jean Renoir e infine Pelle di serpente (1960, 119') di Sidney Lumet.

© Riproduzione riservata