Da Sassari all’Everest il passo non è breve e non è comune, è invece una sfida ad alto rischio che Carlo Gaspa ha deciso di affrontare dopo essersi preparato per molti mesi.

32 anni, «appena compiuti anche se non ero sicuro che sarei riuscito a festeggiarli», imprenditore nel settore dei big data, ha appena concluso il viaggio che lo ha portato a migliaia di metri di altezza.

Carlo è un appassionato di montagna, ha fatto molti trekking. Una vocazione che nel 2018 è diventata via via sempre più organizzata: «Soprattutto in Valle d’Aosta, in Trentino, di solito con amici o guide alpine. Ma per l’Himalaya e il Trek dei Tre Passi mi sono allenato parecchio».

Alla partenza il gruppo era formato da 10 persone, ma solo in 7 ce l’hanno fatta. «Un compagno, anche molto sportivo e abituato alla montagna, dopo il primo Passo ha avuto un edema polmonare ed è venuto a prenderlo l’elicottero, altri due avevano una saturazione molto bassa, tra questi un ragazzo di Cagliari, e hanno dovuto rinunciare».

Un tratto del percorso eseguito a cavallo. Sullo sfondo il Cho La Pass (foto concessa)
Un tratto del percorso eseguito a cavallo. Sullo sfondo il Cho La Pass (foto concessa)
Un tratto del percorso eseguito a cavallo. Sullo sfondo il Cho La Pass (foto concessa)

Perché proprio l’Himalaya?

«Era il mio obiettivo. Solitamente si fa un percorso più breve e facile, per modo di dire, che è quello che taglia dritto verso il campo base. Ma non mi piaceva l’idea di fare un qualcosa che è molto turistico nella pratica. Così come lo sono stile, approccio. Volevo un’esperienza autentica. E ho scelto un trek meno battuto in un parco nazionale, decisamente più difficile».

Cos’è il Trek dei Tre Passi?

«È un trek che dura 17-18 giorni, un percorso ad anello che passa per sentieri normalmente battuti dagli sherpa, etnia locale che discende dai tibetani con tradizioni molto particolari. Si affrontano tre passi di montagna tutti sopra i 5mila metri, e – dopo il secondo – si raggiunge l’Everest e un punto molto panoramico con Kala Patthar. Ho avuto la fortuna, forse più l’incoscienza, di arrivarci al tramonto».

Incoscienza?

«Tutti salgono al mattino perché in questo periodo si ha la certezza di trovare bel tempo, nel pomeriggio ci sono sempre le nuvole, è ciclico, e molti temono di arrivare a 5.644 metri e non vedere niente. Invece nel mio caso le nuvole erano sotto mentre il sole si spegneva sull’Everest».

Tramonto su Everest e Nuptse visto da Kala Patthar (foto concessa)
Tramonto su Everest e Nuptse visto da Kala Patthar (foto concessa)
Tramonto su Everest e Nuptse visto da Kala Patthar (foto concessa)

Come si è preparato?

«Sono da sempre uno sportivo, ma per 13 mesi mi sono allenato 5 o 6 giorni alla settimana con attrezzi e cardio. È molto importante avere fiato, non fumare e non bere neanche durante il trek perché ci si disidrata. Ho messo su 12 chili che ho perso tutti quanti nei 17 giorni di viaggio».

E mentalmente?

«Col senno di poi non mi sembra di averne risentito molto, ma tanti hanno avuto un cedimento per aspetti psicologici non curati o non affrontati prima, le difficoltà sono innumerevoli. Invece non ho pensato tanto a questa cosa, ero concentrato sulla preparazione atletica e mi è andata bene».

Quale attrezzatura aveva?

Innanzitutto bisogna contare il peso degli oggetti al grammo. Una buona parte li porti in spalla e un’altra la si dà al portatore-sherpa. Maglie di lana merino, abbigliamento impermeabile preferibilmente in gore-tex perché lì piove, piumino, ramponi, attrezzature per l’elettricità, power bank perché col freddo tutto si scarica molto in fretta, e occhiali da montagna: la troppa luminosità dovuta al riflesso del sole può provocare quella che viene chiamata cecità da neve e far venire nausea e mal di testa».

Come si è svolto il viaggio?

«Sono partito da Alghero il 13 ottobre con tappe a Milano, Dubai e infine a Katmandu dove sono arrivato il giorno successivo. Prima tappa essenziale è l’aeroporto di Lukla, che è famoso perché è il più pericoloso al mondo, tra le montagne, a 2.860 metri, uno sbalzo non indifferente. Poi Namche Bazar, capitale degli sherpa, da dove si dipanano i sentieri del parco nazionale. Da lì il primo trek dei Tre Passi che si percorrono in senso orario: Renjo La, poi il Cho La, e le tappe del Kala Patthar, il campo base dell’Everest, e l’ultimo Passo, il Kongma La. Essendo un percorso ad anello, si torna infine a Namche Bazar».

La zona tra Renjo La Pass e Gokyo. Laghi di Gokyo, col Cholatse sullo sfondo (foto concessa)
La zona tra Renjo La Pass e Gokyo. Laghi di Gokyo, col Cholatse sullo sfondo (foto concessa)
La zona tra Renjo La Pass e Gokyo. Laghi di Gokyo, col Cholatse sullo sfondo (foto concessa)

Dove vi siete fermati?

«Ci sono dei lodge, tipo rifugi ma molto spartani: se fuori ci sono -15 gradi, all’interno sono -13. Sono gestiti dalla popolazione locale. Accendono una stufa alimentata con sterco essiccato di yak, che fa una fiammata. Per 10 minuti scalda poi c’è di nuovo freddo. Va per tre ore al giorno e basta. Molte persone hanno avuto delle congestioni».

Cibo?

«Riso, riso e riso. E Dal Bhat, un piatto tradizionale, in quantità. Solo che dopo un po’ ti nausea. Nei menu provano a inserire anche qualcosa di italiano, o supposto tale, solo che io sono celiaco e quindi non restavano che riso e zuppe di patate. A volte non mangiavo proprio».

Acqua?

«Potabile non ce n’è. È sbagliato pensare che ci siano quelle fonti dalle quali sgorga acqua limpida, eravamo attrezzati con i filtri poi per comodità la compravamo. Abbiamo bevuto soprattutto tè in tutte le declinazioni possibili».

Montagne himalayane viste dal Cho La Pass (foto concessa)
Montagne himalayane viste dal Cho La Pass (foto concessa)
Montagne himalayane viste dal Cho La Pass (foto concessa)

I letti?

«Più si saliva lungo il percorso più scendeva la qualità di ogni cosa e aumentavano i costi. I letti erano anche buoni, ma noi abbiamo dormito nel sacco a pelo, con sopra una coperta per ripararci maggiormente dal freddo. Un grande problema erano invece i servizi igienici, che di igienico non avevano niente. Un buco nel terreno con a fianco dei bidoni di acqua da “lanciare” per pulire. Solo che di notte e al mattino l’acqua era congelata…».

Cosa si fa una volta raggiunta la cima?

«Quando si raggiunge il Kala Patthar ci si siede. Di fronte si ha l’Everest. Vuol dire aver fatto 400 metri di dislivello con l’ossigeno più rarefatto, è come respirare con metà polmoni. Ci vogliono due ore e mezza per arrivare e si vede tutta la valle del Khumbu a 360 gradi. Ho atteso il tramonto e poi è apparso lo spettacolo della natura».

Tramonto sull'Everest (foto concessa)
Tramonto sull'Everest (foto concessa)
Tramonto sull'Everest (foto concessa)

Da lì il ritorno a casa.

«Sono arrivato in Sardegna il 4 novembre, il giorno più bello della mia vita. Ho avuto il tempo di riabituarmi alla normalità con la tappa intermedia di Kathmandu».

Effetti fisici?

«Un paio di giorni per riprendermi».

Ha fatto i conti con la paura?

«Tutto il tempo. Non ho mai pensato però di tornare indietro, anche se ho sempre temuto di doverlo fare a partire dal terzo giorno. Perché un conto è quando si è nella sala comune dei lodge, dove tutti siamo allegri e felici e giochiamo a carte, un altro è passare per i corridoi, verso la zona notte, sembra di essere catapultati in un film horror».

E vedere cosa?

«Gente che vomita, che piange, che tossisce con l’acqua nei polmoni. Ti metti i tappi per non pensarci e cercare di dormire».

Lo scatto una volta superato il Cho La Pass. Lo sfondo è dominato dall’imponente Ama Dablam (foto concessa)
Lo scatto una volta superato il Cho La Pass. Lo sfondo è dominato dall’imponente Ama Dablam (foto concessa)
Lo scatto una volta superato il Cho La Pass. Lo sfondo è dominato dall’imponente Ama Dablam (foto concessa)

Quali sono stati i momenti più difficili?

«Camminavamo anche otto ore al giorno, hai sempre mal di testa, a volte anche nausea, qualcuno le vertigini, tutti sintomi del mal di montagna che può anche uccidere. Ogni anno muoiono 10-15 turisti, i loro corpi vengono recuperati fino a un certo punto, dopo i 6mila metri vengono lasciati sul posto perché si pagano 40mila euro per le operazioni».

A conti fatti, ne è valsa la pena?

«Ci ho riflettuto molto, è vero che non vedevo l’ora di tornare a casa, ma sì, ne è valsa la pena anche se tutti abbiamo rischiato tantissimo. Forse, da sardo, mi sono sentito fuori luogo e inadeguato, la montagna è spesso vista come un qualcosa di molto lontano dalle nostre abitudini, ma penso che se tornassi indietro lo rifarei. Ovviamente invece non lo rifarò».

Cos’ha portato con sé da questa esperienza?

«Di immateriale la scoperta di tutte le mie debolezze e l’importanza di essere umili, perché lì siamo burattini nelle mani della montagna. In Sardegna o sulle Alpi nel mio gruppo ero sempre il primo, sempre davanti, e mi infastidiva vedere chi rimaneva indietro. Lì ero io l’ultimo. Poi emozioni molto intense, e tanti piccoli semi che ancora devono germogliare».

Oggetti invece?

«Non rocce perché è vietato, e gli irrispettosi vengono scoperti. A parti invertite sarebbe quello che da noi fanno i turisti quando portano via sabbia e quant’altro. Piuttosto dei souvenir, e riproduzioni di ruote della preghiera».

Cosa sono?

«Si trovano su tutto il percorso. Si gira la ruota, in senso orario altrimenti porta sfortuna, e “il destino” sceglie per te una preghiera che mandi al cielo. Sono formule estese del classico “Om” e sono scritte in sanscrito. Qualcosa tipo “meditiamo su quel Signore supremo adoratissimo il cui splendore illumina tutti i regni”».

Pronto per una prossima avventura?

«Non so se l’anno prossimo o quello dopo, ma vorrei visitare altre terre estreme».

Ha già scelto?

«L’Antartide. È una buona idea, no?».

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