Alla soglia dei 90 anni, che compirà tra meno di un mese, parla con disinvoltura di megabyte, transistor, microprocessori e quant’altro. La tecnologia per lui non ha segreti, conosce perfettamente il funzionamento delle moderne apparecchiature, usa app di messaggistica, e ha persino progettato e costruito due tipi di antifurto elettronici per auto e per appartamenti.

Giuseppe (Peppino) Mureddu, classe 1932, da Lodine, vive da anni a Monza e ha deciso di raccontare la sua esperienza nel libro “L’emigrato sardo. Verso il continente italiano ed europeo” (Leone editore). Ma prima di arrivare in Brianza ha passato molto tempo all’estero, emigrato soprattutto per avere una prospettiva di vita fatta di un lavoro ben retribuito, “non come in Italia, dove guadagnavano metà del mio stipendio”. È stata questa la spinta che lo ha portato a lasciare la Sardegna.

Quando era un bambino percorreva cinque chilometri a piedi per andare a scuola a Gavoi, poi ha iniziato come pastore, e suo padre – commerciante di maiali – lo portava spesso con sé. “Finito il nostro giro di vendite nei vari paesi mi affidava il denaro – racconta Mureddu a L’Unione Sarda – e per non rischiare di perderlo me lo faceva nascondere nelle mutande. Poi rientravo in paese con l’autobus: ero un ragazzino, non indossavo abiti eleganti, nessuno avrebbe mai pensato che portassi con me un piccolo tesoro. Babbo invece tornava a piedi”.

Altri tempi, insomma, ma sarà proprio l’autobus uno dei suoi “pallini”: “Quando mio padre mi chiedeva ‘cosa vuoi fare da grande?’, rispondevo ‘l’autista’ e a 21 anni mi ha mandato alla scuola guida di Nuoro. E sa dove dormivo per non fare avanti e indietro da Lodine? Il proprietario dell’autoscuola mi ha offerto ospitalità, mi ha solo annunciato: ‘Basta che non ti formalizzi troppo’. ‘Assolutamente no’, ho risposto, anzi ero molto grato per quell’opportunità. La mia camera da letto era nel suo negozio, vendeva bare”. A parte lo stupore iniziale, Peppino è riuscito nel suo intento e ha conseguito la patente, che gli è tornata utile quando è partito per il servizio militare. Trascorsi i 15 mesi di leva obbligatoria, il ritorno a Lodine e un altro corso per avere il titolo per guidare i pullman, questa volta a Cagliari. Presentata domanda di lavoro come conducente, è rimasto appeso al classico “le faremo sapere”.

Com’è andata a finire?

“Ho aspettato con ansia per 6 mesi, e poi ho deciso di partire. L’idea iniziale era quella di andare in Germania, ma la prima tappa è stata il Belgio”.

Il lavoro?

“All’ufficio di collocamento la prima ‘botta’: ‘Voi stranieri potete lavorare soltanto in miniera, non in superficie’, mi hanno detto”.

E lei?

“Ho accettato, l’alternativa era quella di tornare in Italia e io non volevo. La miniera di carbone era costruita con diversi livelli, la meno profonda era a 350 metri sotto terra, io ero lì. Avevo colleghi turchi, spagnoli, polacchi. Sono rimasto tre anni e mezzo”.

Sempre a fare il minatore?

“No, dopo qualche mese mi hanno chiamato dalla direzione: mi avevano scelto per frequentare un corso per riparare e collaudare macchine per la miniera, quindi lavoravo e due volte alla settimana andavo a lezione”.

E dove dormiva?

“In una casa insieme ad altre persone”.

Ma era contento?

“In realtà quando avevo lasciato la Sardegna pensavo di andare in una fabbrica, la prospettiva di stare per ore là sotto al buio non poteva certo allettare un ragazzo come me. Però quando mia madre mi ha scritto che mi avevano cercato da Nuoro per fare l’autista e ho saputo che lo stipendio era meno della metà di quello che prendevo in Belgio non ho avuto dubbi, volevo restare e anzi volevo andare in Germania”.

Quindi? È partito?

“Prima ho cercato un posto per studiare il tedesco, nessuno mi avrebbe assunto senza padronanza della lingua. Una volta che mi sono perfezionato mi hanno preso alla Bayern di Leverkusen. Facevo un lavoro semplice, ero nel settore del mescolamento dei colori. Ma non mi sono accontentato, ho presentato domanda alla Ford, dall’altra parte del Reno, insomma andavo dove potevo guadagnare di più, e li sono rimasto per due anni circa”.

Ma non era l’ultima tappa…

“No, assolutamente. Una domenica stavo passeggiando vicino al duomo di Colonia e ho visto un giornale italiano con gli annunci di lavoro. Uno in particolare si riferiva alla ricerca di tecnici che conoscessero bene i torni, era perfetto per me. Un venerdì ho preso il treno per andare a Sesto, nel Milanese, alla Ercole Marelli. Ho fatto la prova e mi hanno assunto subito”.

Tutto bene allora?

“Mica tanto, la busta paga era la metà di quella tedesca. Però sono rimasto 9 anni e nel frattempo ho continuato a studiare per diventare perito elettronico industriale, mi mandavano in vari posti per collaudare le macchine. Di aumenti salariali, nonostante gli anni, non se ne parlava, per accordi sindacali l’aumento si dava a tutti o a nessuno. Allora ho cercato un altro posto a Milano, e ho continuato fino alla pensione nel 1996”.

In tutto questo viaggiare, l’amore?

“C’era eccome, nel 1962 durante un periodo in Sardegna, ho conosciuto una ragazza del mio paese. In breve ci siamo fidanzati e poi sposati. Io e Grazietta abbiamo oggi due figli, Giovanna e Franco, e siamo anche nonni”.

Come mai ha deciso di raccontare la sua vita nel libro “L’emigrato sardo”?

“Perché tante persone mi dicevano che valeva la pena lasciare una traccia di una storia che magari è simile a tante altre, ma io mi sono voluto spingere oltre”.

E come?

“Il sottotitolo dice tutto: ‘Consigli reali per trovare lavoro e mantenerlo, per vivere meglio e più a lungo’”.

Qualche segreto?

“Soprattutto ai giovani vorrei dire che devono trovare il coraggio e la volontà ferrea di affrontare i problemi di oggi. Li vedo sempre con questi telefonini in mano, nascosti dietro alle tastiere, dietro quei piccoli processori che invece, ai miei tempi, erano enormi. Mandano foto, video, pensare che noi alla loro età non avevamo nulla”.

Cosa dovrebbero fare?

“Incrementare la loro cultura se possibile, fare tanti sforzi e studiare studiare studiare, approfondire una materia per la quale si sentono portati e mettere tutta la buona volontà per imparare un mestiere, diventare instancabili e lavorare sempre”.

Lei ha rimorsi o rimpianti?

“Avrei dovuto iniziare prima a studiare, questo sì”.

E per il futuro cosa si augura?

“Vorrei che il mio piccolo libro venisse letto da tanti giovani studenti per far capire loro l’importanza della cultura, e da persone in procinto di creare o trovare un lavoro per trasmettere l’importanza di applicarsi con tutta la buona volontà per approfondire bene la tecnica specifica della professione scelta e raggiungere il successo sperato”.

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